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Microcriminalità, sicurezza e politiche del centrosinistra.
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TOLLERANZA ZERO?
La recente, ridicola, se non fosse drammatica, ordinanza del Sindaco di Firenze contro i lavavetri e la ancora più recente richiesta dei Sindaci di Bologna e ancora di Firenze di attribuire poteri di polizia ai Sindaci, accompagnate dalle continue iniziative "securitarie" promosse dai Sindaci del Centro Sinistra, dimostrano ancora una volta come sia in atto un tentativo della sinistra di accreditarsi rispetto al concetto di sicurezza, normalmente ritenuto patrimonio della destra.
Ci pare necessario fare chiarezza su questo primo punto: l'istanza di sicurezza dei cittadini, di per sé, non è concetto né di destra, né di sinistra, ma esprime semplicemente la condivisibile richiesta di una vita possibilmente tranquilla; ciò che deve costituire la differenza tra destra e sinistra, invece, è il contenuto del concetto di sicurezza ed i modi per ottenerla.
Ed è qui che, invece, si stanno verificando cedimenti inaccettabili da parte della sinistra in generale, e dei Sindaci eletti da quello schieramento, in particolare.
E' recente la preoccupata dichiarazione, sul punto, del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Torino, Caselli, che ha affermato 'le differenze politiche si stanno affievolendo. Si fa a gara nell?appiattirsi sulle posizioni con venature populistiche, ad accantonare ad esempio la difesa dei diritti sociali nel nome supremo della sicurezza, ad assecondare le paure e le insicurezze della gente e le sue percezioni esasperate'.
E' profondamente errato cavalcare la difesa della sicurezza ad ogni costo, come strumento per acquisire consenso popolare, occorre ribadire con forza che, se siamo d'accordo che vi sia uno sforzo da parte dello Stato per garantire maggior sicurezza a tutti i cittadini, mai si potrà accettare che, per quella ragione e per quello scopo, si limitino le libertà individuali di alcuni cittadini, ovviamente i meno tutelati ed i meno abbienti.
L'ordinanza del Sindaco di Firenze è emblematica del suo scopo elettoralistico: per dimostrare che il Sindaco è in sintonia con quei cittadini che hanno subito aggressioni da parte di lavavetri, si arriva ad affermare che il mestiere di lavavetri è vietato sino al 31 ottobre 2007, con il che affermando implicitamente che, prima dell'ordinanza e dopo il 31/10, l'attività poteva e potrà essere liberamente svolta, senza necessità di licenza alcuna!
L'ordinanza, dunque, non può che essere stata emessa in un tentativo di captatio benevolentiae della pubblica opinione.
Comunque, a parte il discorso sulla veramente dubbia legittimità di quell'ordinanza, rispetto alla quale sarà possibile l'impugnazione avanti il TAR, ciò che ci preoccupa vivamente come Giuristi Democratici è la filosofia sottesa a questo tipo di provvedimenti; occorre un'inversione di tendenza, che vada incontro alle esigenze dei cittadini, senza porre in pericolo i diritti di nessuno e senza ricorrere a strumenti tanto inefficaci, quanto vessatori; ed in questo senso, crediamo che le forze della Sinistra debbano operare un serio esame di coscienza e riappropriarsi di quella difesa dei diritti sociali che dovrebbe costituire, come in passato, il loro fiore all'occhiello.
06/09/2007
ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI
Pubblicato da Redazione 11-09-2007 13:19
Pubblchiamo un articolo apparso su Diritto di Critica n. 2-2006 e che affrontava la questione a partire della iniziative del sindaco di Bologna, Sergio Cofferati.
LEGALITÀ, NUOVI DIRITTI E PRATICHE DI TRASFORMAZIONE SOCIALE
DI MARINA PROSPERI, STANISLAO RINALDI, GIANANDREA RONCHI, BARBARA SPINELLI*
1. Premessa.
Il tema della “legalità” nell’ultimo anno a Bologna ha occupato lo spazio principale nel dibattito politico, divenendo il punto di confluenza di situazioni socialmente problematiche, o supposte tali, di natura anche assai diversa tra loro: dal “degrado” di alcune zone della città al “disturbo sociale” recato da stili di vita giovanili, dalle occupazioni di necessità di aree private o pubbliche da parte di soggetti marginalizzati sino a modalità di espressione del conflitto sociale e politico.
La discussione - che ha visto anche la presentazione in consiglio comunale di ordini del giorno sulla “legalità” - si è andata sviluppando in un confronto serrato tra una parte della sinistra moderata, rappresentata principalmente dal sindaco Cofferati, e le varie componenti della “sinistra radicale” (dai movimenti alle organizzazioni partitiche, PRC in primo luogo), che hanno subito questo tema anche come un attacco diretto alla propria pratica politica, spesso improntata ad azioni di disobbedienza civile.
L’argomento è stato utilizzato non di rado anche in chiave strumentale per testare la tenuta della maggioranza di governo locale, e per misurare lo spazio di egemonia delle forze principali che la compongono nei confronti degli altri alleati. Ma ha fatto capolino a più riprese anche nel dibattito nazionale, con vari interventi pubblicati sui principali quotidiani, prese di posizione diverse nelle varie componenti della sinistra, e discussioni sul carattere di “laboratorio” che l’esperienza bolognese potrebbe rivestire.
Di qui, la necessità di affrontare questa tematica con maggiore attenzione, provando anche a superare taluni limiti e ritardi registrati all’interno delle varie componenti della stessa “sinistra radicale”, nella quale l’approccio al tema è a volte apparso sganciato da una visione critica più generale sui temi della “legalità” e della “sicurezza”, e troppo concentrato, nello specifico della realtà bolognese, sulle contingenti necessità di dare risposte immediate all’azione politico-amministrativa promossa dalle componenti maggioritarie del governo locale.
2. La "legalità" come mera tutela dell’ordine pubblico, e le funzioni autoritarie delle "campagne legge e ordine".
Il concetto di “legalità” che si è andato delineando nelle componenti maggioritarie dell’amministrazione locale bolognese - depurato da enfatiche e semplificatorie affermazioni di principio, e al di là delle diverse intenzioni che possono averlo ispirato - nella sostanza si è tradotto nel perorare il sostegno alle “tradizionali” forme di tutela dell’ordine pubblico, attraverso l’intensificazione della repressione di tipo penale o amministrativo, e nel fornire una forte legittimazione sia istituzionale che culturale a questo modo di operare.
Dal punto di vista politico-culturale, a tale operazione è apparsa sottesa una concezione autoritaria volta a privilegiare la dimensione della “sicurezza”, rispetto a quella dell’intervento sociale. La “sicurezza” è stata appiattita in una dimensione che pone attenzione quasi esclusivamente alle forme di “disturbo sociale” riferibili alle fasce di popolazione marginalizzate (migranti, mendicità, piccola criminalità, manovalanza per spaccio, ecc.) e/o considerate socialmente periferiche (giovani, studenti, precari), e che al contempo trascura quell’ampio spettro di situazioni che producono una dannosità sociale spesso ben più rilevante, ma nelle quali vengono in gioco i poteri e gli ambiti socio-economici dei ceti sociali privilegiati e/o dominanti.
Ma soprattutto – ed è questo un aspetto ben poco coerente con gli orizzonti della consapevolezza critica, della trasformazione e della solidarietà sociale che dovrebbero appartenere alle sinistre, “moderate” o “radicali” che siano – la variegata fenomenologia genericamente indicata come fonte di “degrado” è stata presentata in forme fortemente depurate dei suoi caratteri di problematica sociale, che rimanda anche a precise responsabilità del sistema socio-economico, consegnando ai cittadini l’illusione che un pieno rispetto della “legalità”, e cioè maggiori controlli e repressione, ne potessero costituire una valida soluzione in sede politica e istituzionale.
Si sono in questo modo ripresi alcuni dei temi tipici delle “campagne legge e ordine” da tempo sperimentate, anche a livello europeo, prima dalle destre e poi in periodi più recenti dalle “sinistre” moderate di governo, come l’esperienza inglese del New Labour di Blair .
Il meccanismo generale di queste campagne è oramai ben collaudato: alle “ordinarie” tensioni ed agli squilibri sociali prodotti dalle contraddizioni e diseguaglianze del modello capitalistico, si sommano (soprattutto in presenza di una crisi economico-sociale come l’attuale, acuita dagli orientamenti neo-liberisti), fenomeni di aumento della precarietà e incertezza per le prospettive di lavoro e in generale per le aspettative della propria vita sociale, che nel loro complesso generano diffuse ansie e insicurezza sociale, specialmente, ma non esclusivamente, nei ceti sociali subalterni.
Tali ansie vengono sistematicamente indirizzate, dal sistema politico e informativo, su terreni simbolici come il timore verso la “criminalità”, la devianza in senso lato, i fenomeni migratori, rappresentati nel loro insieme come minacce verso la convivenza civile, da cui difendersi in modo prioritario attraverso la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. L’omogeneizzazione e la coesione sociale, intaccate dalle dinamiche proprie del modello capitalistico e ulteriormente aggredite dai meccanismi di crisi economico-sociale, si tenta così di ricostruirle su un terreno simbolico e ideale, e perciò fittizio, attraverso la rappresentazione di una indifferenziata “comunità” in cui tutte le diseguaglianze sociali economiche e culturali scompaiono, insidiata dal “nemico interno” di turno, identificato in figure sociali quali il migrante, il tossicodipendente, il piccolo criminale di strada, la prostituta, il “barbone”, che hanno tutte la comune caratteristica di rappresentare il “diverso”.
Per il sistema politico, incapace o non interessato a dare risposta alle domande sociali che sono alla base dell’insicurezza sociale - in particolare nella presente epoca di capitalismo neo-liberista, di sistematico smantellamento dei meccanismi del Welfare e di drastico ridimensionamento delle politiche sociali - questo meccanismo si traduce in una possibilità di recupero di forme di consenso e legittimazione, e si configura come una vera e propria tecnica di governo del “disordine sociale”, creando “cortine fumogene” sui reali problemi sociali ed economici, e dislocando sul terreno dell’ordine e della sicurezza pubblica tensioni e disagi che hanno la loro reale origine nelle contraddizioni e diseguaglianze generate dal modello capitalistico.
3. Cenni critici sulla visione dominante del fenomeno della criminalità.
In questo contesto, appaiono esaltati i meccanismi di selezione classista del sistema di repressione penale . Già in via ordinaria, la tutela di beni essenziali (vita, incolumità personale, patrimonio) tradizionalmente alla base dell’attuale ordinamento penale, viene operata in modo differenziato, privilegiando, tra tutte le possibili aggressioni a cui possono essere sottoposti, quelle provenienti da soggetti appartenenti ai ceti sociali più deboli e/o marginalizzati, e sottacendo le forme di aggressione poste in essere dai soggetti “forti” sul piano economico-sociale e anche politico, spesso produttive di una dannosità sociale di gran lunga maggiore di quella generata dai reati ascrivibili a soggetti provenienti dalle cd. “classi pericolose”. Gli esempi al proposito sono innumerevoli: infortuni sul lavoro, sofisticazioni alimentari, attentati alla salute collettiva attraverso l’inquinamento dei territori, appropriazione di beni collettivi con meccanismi apparentemente legali e con il ricorso alla corruzione, connivenze di rappresentanti politici e istituzionali con forme organizzate di criminalità, rapine al patrimonio pubblico nella gestione illegale della cosa pubblica, grandi evasioni fiscali, distruzioni ambientali, speculazioni edilizie, uso dei meccanismi finanziari per il riciclaggio di “denaro sporco”, comportamenti illegali e violenti degli appartenenti alle forze dell’ordine, danni da un modello di circolazione stradale di tipo individuale frutto di un sistematico declassamento dei sistemi di trasporto pubblico, incuria colpevole nella manutenzione delle strade, ecc.
Strettamente connesso a questo modo di operare del sistema penale, è la stessa definizione di criminalità. Se si può astrattamente definire come criminale qualunque soggetto che violi la legge penale, sul piano concreto si registra invece che l’etichetta di criminale viene attribuita a chi è stato effettivamente sottoposto a sanzioni di tipo penale. Ma i meccanismi del sistema penale operano in modo selettivo, selezionando appunto, tra tutti coloro che compiono infrazioni della legge penale, solo determinati soggetti: in questo senso, «la criminalità è un “bene negativo”, distribuito inegualmente secondo la gerarchia degli interessi fissata nel sistema socio-economico e secondo la diseguaglianza sociale tra gli individui» . In altri termini, il gioco è “truccato” dall’inizio: se tra tutti i potenziali o effettivi infrattori della legge penale, il sistema del controllo penale e sociale si è nel tempo specializzato nel perseguire sempre e soltanto determinate tipologie, e cioè i soggetti provenienti dai ceti sociali subalterni o marginalizzati, ecco che la criminalità diviene un fenomeno connesso agli ambiti di vita delle parti più svantaggiate delle classi popolari. L’illegalità dei potenti, quella dei detentori delle leve del potere economico-sociale, ben più consistente e dannosa socialmente, non viene riconosciuta come tale semplicemente perché non perseguita.
Di qui, lo “strabismo” permanente della visione della criminalità come fenomeno che è strettamente connesso agli strati sociali più bassi della popolazione, la coniugazione automatica di povertà e criminalità, a cui la criminologia positivistica e l’ideologia penale della difesa sociale ci ha da decenni abituati, seguita in ciò acriticamente nella rappresentazione largamente comune e dominante del fenomeno della criminalità fornita da parte del sistema dell’informazione e del sistema politico, e anche da settori rilevanti delle stesse sinistre.
Questo lo schema che nella prospettiva critica della sinistra alternativa occorre contrastare con maggior decisione, da un lato evidenziandone sul piano culturale e ideologico la stretta connessione con l’attuale modello sociale fondato sulle diseguaglianze sociali e di classe, e dall’altro producendo iniziative di mobilitazione che svelino e al tempo stesso combattano il diffuso “illegalismo dei poteri”. In questa prospettiva, sul piano della pratica politica immediata, e a titolo puramente esemplificativo, potrebbero andare iniziative dirette a contrastare il largo abuso del ricorso al lavoro “nero” (l’intermediazione di manodopera è ad esempio uno di quei reati che, all’ombra della cd. “legge 30", di fatto si è scelto di non perseguire), o volte a denunciare in forma organizzata il fenomeno delle locazioni in nero, o ancora ad avviare battaglie per il diritto alla salute contrastando il “normale”, ancorché illegale, inquinamento ambientale dei territori, guardando con maggiore attenzione alle periferie urbane da sempre lasciate a se stesse anche nel pieno di dibattiti sulla tutela dell’ambiente.
Al proposito, si rende però necessaria una precisazione. Per la sinistra alternativa, richiamare l’attenzione su situazioni e comportamenti che producono dannosità sociale diffusa ma che non sono oggetto di attenzione del sistema penale, non deve necessariamente portare ad una invocazione dell’intervento penale in chiave “progressista”, che oltretutto si rivelerebbe spesso inefficace ed esporrebbe lo strumento penale ad ulteriori torsioni autoritarie: al contrario, occorre evidenziarne il carattere di questioni sociali ed economiche che richiedono una risoluzione in sede politica, non diversamente da quanto spesso avviene quando si affrontano le situazioni sociali problematiche che negli strati sociali subalterni producono marginalizzazione ed esclusione, e che sono affrontate con il solo ricorso alla repressione penale. In altri termini, non si tratta semplicisticamente di invertire i meccanismi della penalizzazione dirigendoli verso comportamenti illegali o criminali sinora ad essi immuni, rischiando così di cadere in una sorta di panpenalismo che attribuisce allo strumento penale la “virtù magica” di risolvere i problemi sociali, e restando con ciò completamente subalterni alla dominante concezione comune che vede nel diritto penale un adeguato ed efficace strumento per la risoluzione di conflitti.
Viceversa, va messo in evidenza come il diritto penale si caratterizzi quale strumento dalla forte valenza “simbolica” , che intervenendo ex post con sanzioni rispetto ad aree selettivamente selezionate nell’ampio spettro dei comportamenti astrattamente sanzionati dal sistema penale, oltre a non rivelarsi affatto efficace rispetto agli scopi dichiarati , finisce nella sostanza per offrire una legittimazione alla incapacità del sistema istituzionale e sociale di affrontare sul terreno loro proprio le irrisolte tensioni e problematiche presenti nel corpo sociale. In questo senso, l’uso dello strumento penale in sé, e il simbolismo della sua risposta, occultano ogni responsabilità delle forme di organizzazione della società stessa nella genesi dei comportamenti etichettati come antisociali, mascherando le diseguaglianze e i conflitti sociali, e contribuendo per questa via al rafforzamento dei rapporti di potere economico-sociali dominanti e della stratificazione sociale diseguale.
4. La concezione conservatrice della “legalità” come un valore indipendente dai contenuti.
Alla luce delle generali osservazioni sinora delineate, andrebbe letta anche la specifica vicenda bolognese. Le proposte avanzate dalle componenti maggioritarie del governo locale hanno spesso echeggiato alcuni degli elementi delle “campagne legge e ordine”, si inseriscono nella visione dominante e acritica della criminalità, e si riconnettono alla tendenza generale in atto a livello europeo dove l’ossessione sicuritaria è da tempo presente.
Dove però tali proposte si sono mostrate innovative, almeno per quel che riguarda la situazione italiana ed in particolare la tradizione politica della sinistra, è nel modo di prospettare il concetto di legalità, attribuendo un valore etico-politico al principio del rispetto in sé delle norme formalmente vigenti, indipendentemente dai suoi contenuti (e arrivando di recente addirittura a stigmatizzare politicamente anche chi soltanto si sia azzardato ad esprimere al riguardo una semplice opinione critica). Questa impostazione oltre ad essere propria dello Stato etico e storicamente appartenente alle destre politiche e culturali di ogni tempo, rompe decisamente sia con le tradizioni critiche del pensiero socialista (“riformista” o “rivoluzionario” che sia), dove la giustizia sociale è il metro principale con cui si valutano le leggi vigenti, sia con taluni rilevanti filoni del cattolicesimo impegnato nel sociale, dove i principi cristiani della solidarietà tra le persone hanno la precedenza sulle leggi dello stato.
Ma anche sul terreno giuridico stesso il richiamo etico-politico al rispetto in sé delle norme vigenti opera una forzatura rispetto alla concreta articolazione del nostro ordinamento giuridico, dove esiste una gerarchia delle fonti del diritto, con la Costituzione al suo vertice (e ora anche una serie di trattati internazionali), che impone di leggere, interpretare e valutare la legislazione ordinaria alla luce dei principi costituzionali stessi, e che considera le normative vigenti mai come valori in sé, ma sempre come risultato provvisorio e perfettibile, e perciò anche criticabile.
Se proprio di legalità si vuol parlare, apparirebbe perciò più corretto parlare di legalità costituzionale, intendendo con ciò l’attuazione e la tutela all’insieme dei diritti sociali e di cittadinanza propri del modello di Stato sociale di diritto accolto nella carta costituzionale.
Muovendo da un concetto di questo tipo, ad esempio, ben difficilmente si sarebbero potuti invocare, come è stato fatto di recente a Bologna, alcuni provvedimenti che hanno la loro base ultima in testi normativi come il famigerato TULPS del legislatore fascista del 1930, mai aggiornato alle concrete necessità e ai principi costituzionali, oppure richiedere l’intervento della forza pubblica per consegnare persone ai CPT, la cui costituzionalità è più che dubbia, o ancora invocare l’applicazione della cd. “Legge Bossi-Fini”, una legge incostituzionale già oggetto peraltro di ripetuti interventi della Corte costituzionale. Né, infine, si sarebbero potuti equiparare ad “eversione” - lascito di una “legislazione di emergenza” criticata da ampi ed autorevoli settori della dottrina giuridica penalistica - gli episodi di conflitto sociale e le eventuali “illegalità” che possono averli accompagnati, sovente peraltro qualificate come tali, o punite con severità sproporzionata rispetto alla loro reale entità o dannosità sociale, per effetto di normative penali ancora in larga parte pervase dalla logica autoritaria e fortemente repressiva del legislatore fascista, che come è noto non considerava affatto con favore un qualunque episodio di “disordine sociale”, anche se concretantesi in fatti di minima entità.
Va al proposito ricordato e sottolineato che il riferimento ai principi costituzionali come criterio di valutazione delle normative ordinarie, da modificare e cercare di adeguare ai dettami costituzionali, è stato per lungo tempo fatto proprio dalle sinistre in Italia, ed ha svolto una funzione di potenziamento e di legittimazione delle lotte per la trasformazione sociale . La “disobbedienza” non è una novità degli ultimi anni, ma è stata storicamente una pratica costante dei movimenti sociali (da quello operaio e studentesco a quello delle donne, sino ai movimenti degli anni più recenti), che, grazie a lotte spesso aspre, dure e “illegali”, hanno prodotto avanzamenti sul piano civile, sociale ed economico riconosciuti poi normativamente, e per questa via hanno contributo ad una attuazione di avanzati principi costituzionali. Basti pensare alle normative in materia di lavoro e sicurezza sociale (Statuto dei lavoratori innanzitutto), di diritti civili (diritto di famiglia, aborto, obiezione di coscienza al servizio militare), di tutela ambientale, e si potrebbe continuare elencando le decine di innovazioni recepite dal legislatore a seguito delle mobilitazioni sociali non di rado duramente represse in nome della presunta “legalità” del momento.
5. Dal “diritto alla sicurezza” alla “sicurezza dei diritti” come garanzia dei diritti sociali.
Per contrastare l’operazione culturale e politica attualmente in atto, che va anche al di là della questione della legalità in sé, un prima strada da percorrere è quella di respingere la logica sicuritaria che si sta sperimentando a Bologna, chiarendo in tutte le sedi che questa è non solo autoritaria ma anche del tutto inefficace. Le politiche repressive, dalle forme estreme della “tolleranza zero” a quelle più “moderate”, oltre ad essersi rivelate inefficaci rispetto ai fini dichiarati (ma con un alto costo sociale in termini di persone incarcerate o perseguite a vario titolo), hanno addirittura contribuito all’ampliamento dei fenomeni di intolleranza verso le forme di diversità e/o devianza, in quanto hanno alimentato quella spirale perversa per cui all’aumento della repressione che non risolve il problema, si risponde con ulteriori aumenti della repressione.
E’ certamente vero che molte delle situazioni sociali problematiche che affliggono le aree metropolitane trovano le loro radici nel più vasto quadro dei complessi squilibri socio-economici generati dai processi di globalizzazione neo-liberista, e che richiederebbero un’inversione di tendenza sul piano delle politiche internazionali e nazionali.
Le amministrazioni comunali, anche per il restringimento continuo della spesa sociale, hanno margini di intervento limitati, ma non per questo poco significativi.
In particolare, da una amministrazione di sinistra ci si attende in primo luogo che, rifuggendo dalle semplificazioni sicuritarie e da logiche “emergenziali”, riconosca il carattere strutturale di molte delle contraddizioni sociali senza lasciarsi influenzare dalle costruzioni ideologiche della cosiddetta “opinione pubblica”, che non deve costituire un criterio di valutazione e di decisione, bensì un oggetto di analisi e di critica.
Occorre al proposito avere ben presente che, come mostrato da ampie ricerche sociologiche in tema di insicurezza e di domanda di pena, queste derivano solo in parte da una percezione diretta del rischio della criminalità . Esse rappresentano in gran parte la canalizzazione di frustrazioni che dipendono in realtà dall’insoddisfazione di altri bisogni e altri diritti, e che è caratteristica propria delle politiche di tipo tecnocratico e autoritario in cerca di facile consenso quella di favorire tale canalizzazione nel “bisogno di sicurezza” dalla criminalità.
Viceversa, è compito delle politiche democratiche superare la logica sicuritaria, ed interpretare la richiesta di sicurezza come domanda di sicurezza del godimento di diritti, in primo luogo quelli di carattere sociale, evitando che la strumentalizzazione del “bisogno di sicurezza” conduca a “campagne legge e ordine” al solo fine di neutralizzare ciò che non si è stati capaci di amministrare.
In questa prospettiva, un’amministrazione comunale di sinistra, la quale voglia effettivamente ricostruire un tessuto sociale più giusto ed equilibrato, può concretamente adoperarsi con gli strumenti legislativi esistenti e con un più razionale impiego delle risorse disponibili, ancorché ridotte, promuovendo politiche abitative, di inclusione, di accoglienza, di sostegno allo sviluppo. Occorre scongiurare il rischio che il controllo del territorio possa tradursi soltanto in politiche della sicurezza coniugate sul mero terreno repressivo dell’ordine pubblico (come ad esempio è avvenuto con gli sgomberi di baraccati), ambito che peraltro è di competenza prioritaria delle forze di polizia, ma non certo propriamente consono alle amministrazioni locali elettive, chiamate appunto ad interventi politico-sociali e di governo del territorio di carattere più generale.
Ed è proprio per questo complesso di motivi che un’amministrazione comunale di sinistra non può mai proclamarsi mero custode dello status quo anche a costo di comprimere i diritti fondamentali dei soggetti ai margini della nostra società.
Occorre, dunque, adoperarsi per invertire il paradigma che vuole contrapposto il “diritto alla sicurezza” alla “sicurezza dei diritti” , privilegiando la tutela della sfera dei diritti individuali e sociali inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione e sanciti anche a livello internazionale, quali il diritto al lavoro, alla salute, all’ambiente, alla casa, alle prestazioni sociali, all’istruzione. In questa prospettiva, le istituzioni democratiche, da quelle locali a quelle nazionali, devono porsi il compito di assicurare la garanzia dei diritti fondamentali e universali della persona (senza alcuna distinzione fondata sul titolo giuridico del possesso della cittadinanza), dal momento che è ragionevole dubitare che vi possano essere “città sicure” quando la maggior parte degli abitanti è senza sicurezza nel godimento dei propri diritti.
Con ciò, si opererebbe anche un superamento dell’accezione meramente formale e conservatrice del concetto di “legalità”, a favore di un concetto dinamico e progressivo di legalità costituzionale (art. 3 Cost.), che contiene “legge” e “giustizia”, espressione dei valori, primi fra essi la centralità della persona e dei suoi diritti inalienabili, assunti come fondativi della stessa civile convivenza, e che indica alle istituzioni un orizzonte di interventi positivi al fine di ridurre gli squilibri e le diseguaglianze sociali che limitano la partecipazione dei cittadini socialmente più svantaggiati alla vita politica, economica e sociale del Paese .
In questo senso, una politica integrale di protezione e di soddisfacimento dei diritti umani e fondamentali non è solo un modello possibile, che rappresenta una valida soluzione alternativa a quella esistente, ma è anche un modello legittimo, perché corrisponde alla validità ideale delle norme contenute nelle costituzioni dello Stato sociale di diritto e nelle convenzioni internazionali in materia di diritti umani (art. 10 Cost.). Ed è anche per questa via che le politiche autenticamente democratiche possono rielaborare e ricondurre i sentimenti di insicurezza e le richieste di intervento penale in una dimensione in cui legalità, giustizia sociale e solidarietà possano trovare forme di equilibrio.
In questo particolare momento storico va sottolineato che, se sotto la copertura di battaglie astratte in nome della “legalità” si compiono ingiustizie concrete, o percepite come tali, il rischio di una radicalizzazione ideologica nella percezione del mondo può diventare un sentire collettivo che non farebbe altro che incrinare ulteriormente la fragile trama della convivenza sociale.