ALTRI IN "GIUSTIZIA"
 
 
 Terrorismo, guerriglia e giudizi

Pubblicato da Redazione 07-02-2005 05:27
 

Comunicato del 28.01.2005 sulla sentenza del GUP di Milano che distingue tra terrorismo e guerriglia

A PROPOSITO DELLA DEFINIZIONE DI TERRORISMO

La sentenza del Gup di Milano, assolutoria nei confronti di alcuni imputati di associazione con finalità di terrorismo internazionale ex art. 270 bis c.p. nella formulazione conseguente agli attentati dell'11 settembre, ha scatenato una impressionante serie di reazioni in nessun modo giustificate dalla motivazione della sentenza ( che non è certo qualificabile come atto abnorme secondo l'incomprensibile ed atecnica definizione del ministro di giustizia Castelli ).
La sentenza, che ovviamente potrà essere impugnata dalla procura in dissenso sulla lettura data ad una norma del codice penale ( e non rimuovibile dagli ispettori del ministero, a cui vengono attribuiti poteri di difficile configurazione ), ha il merito di avere sollevato un problema importante,
che attiene alla mancata esatta identificazione della nozione di terrorismo,
il che comporta violazione del principio di stretta legalità ex art. 25 co.2 Cost.
Del resto nel 2004 il giudice Gilbert Guillame, già presidente della Corte di Giustizia, aveva dovuto ammettere che la comunità internazionale non era riuscita ancora a trovare un accordo sulla definizione di terrorismo.
Dal 1963 ad oggi si sono succeduti molti atti e convenzioni che hanno tentato in qualche modo di definire vari aspetti del "terrorismo" e la stessa Convenzione Europea per la repressione del terrorismo del 1977, ratificata dall'Italia nel 1986, elenca una serie di reati che per gravità non possono essere definiti politici, ma non descrive il reato terroristico .
Dopo l'approvazione del nuovo art. 270 bis c.p.( L. 15 dicembre 2001 n. 438) era già stata espressa preoccupazione per una formulazione che, soprattutto per quanto riguarda il terrorismo internazionale, avrebbe consentito di rendere punibili atti di violenza politica nei confronti di poteri privi di requisiti minimi di democraticità, ed anche nei confronti delle forme di resistenza ad occupazioni del territorio da parte di potenze straniere.
Nella sentenza milanese non si fa che tentare una lettura secondo il diritto internazionale di ciò che può essere definito atto terroristico, identificabile con ogni attività diretta a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico o politico,
ponendosi come delitti contro l'umanità (seguendo così la definizione propria dello statuto della Corte penale Internazionale).
Diversamente, l'attività di guerriglia in contesto bellico, assimilabile all'attività di forze militari, non può essere definita terrorista.
E nel caso di specie, la Gup di Milano non ha ritenuto di avere elementi probatori
sufficienti ad affermare la finalità di terrorismo .
Un tema così importante, che attiene alla definizione e all'affermazione anche del diritto all'autodeterminazione dei popoli, merita più attenzione e un confronto politico e giuridico di altro spessore.

Associazione Nazionale Giuristi Democratici

I provvedimenti e gli atti giudiziari

Pubblicato da Redazione 07-02-2005 05:36

Nel sito di Magistratura Democratica (vedi link nell'apposita sezione) sono consultabili i provvedimenti del GUP di Milano, del GIP di Brescia e l'atto di appello della Procura di Milano.

Il reato di terrorismo fra resistenze politiche ed ambiguità normative

Pubblicato da GD Rovereto 07-02-2005 06:21

Le recenti decisioni delle autorità giudiziarie in materia di terrorismo internazionale rischiano - ancora una volta - di trasformare una materia complessa in una competizione sportiva, dove il tenore dei commenti varia a seconda del risultato o del minuto di gioco.
Cercando di procedere per sommi capi, e con le approssimazioni che ne conseguono, è indiscutibile che il "terrorismo" è prima di tutto un concetto politico, metagiuridico e come tale, pertanto, influenzato da fattori storici, politici, culturali, militari, religiosi ed ideologici. Da ciò deriva soprattutto la difficoltà di formulare una definizione universalmente valida, posto che un atto violento che un ordinamento giuridico (che recepisce un sistema ideologico) può qualificare come terroristico, per altro ordinamento può addirittura assurgere ad atto fondativo di un nuovo patto costituzionale. Insomma, per dirla con le parole del Ministro della Giustizia britannico Jack Straw del 1998: "non dimentichiamo che chi oggi è considerato un terrorista potrebbe domani essere definito un combattente per la libertà".
Il fenomeno del terrorismo, per le accennate ragioni metagiuridiche, solleva per la intrinseca permeabilità del diritto a siffatte ragioni, numerose questioni giuridiche. La prima difficoltà sta nella sua definizione: cos'è il terrorismo per la comunità internazionale e cos'è il terrorismo nell'ordinamento italiano?
Sul piano del diritto internazionale, è intuibile che a livello universale non vi sia omogeneità di principi, né tantomeno unitarietà di politiche nei confronti del fenomeno terroristico: è, dunque, difficile far accettare per vie pattizie - e cioè tramite di trattati internazionali - agli stati una definizione che può ovviamente incidere, limitandola, sull'esercizio della sovranità.
Un esempio pratico aiuterà a focalizzare il punto critico. Poniamo che il terrorismo venga identificato con "ogni atto la cui finalità per natura o contesto, sia quella di intimidire una popolazione
o di costringere un governo o una organizzazione internazionale a fare o ad omettere qualche atto...'', come in effetti viene definito nell'articolo 2.1, lettera b della Convenzione Internazionale per la soppressione del finanziamento del terrorismo delle Nazioni Unite, New York, 1999. E' lampante che tale definizione rischia di esporre molti stati, tra i quali anche qualche stato che annuncia di "esportare la democrazia", a veder classificate le proprie azioni di politica estera condotta con l'impiego della forza come azioni terroristiche.

Per evitare equivoci, giova ricordare che in effetti in un famoso precedente giurisprudenziale deciso dalla Corte internazionale di giustizia con sede all'Aja nel 1986, gli Stati Uniti d'America vennero accusati dal Nicaragua di aver usato contro di lui la forza armata diretta, disseminando mine nelle acque territoriali nicaraguensi, causando danni alle navi mercantili
del Nicaragua e di altri Stati; oltre ad aver attaccato i porti, le installazioni petrolifere e le basi navali e inoltre di aver fornito assistenza logistica ai ribelli anti-sandinisti (i c.d. contras). La Corte in sentenza stabilì che le manovre militari condotte dagli U.S.A. in Nicaragua erano illecite, in quanto costituivano una violazione del principio che vieta l'uso della forza. Oggi tali azioni, secondo la definizione prospettata dalla Convenzione di New York del 1999, sarebbero pacificatamente definite come terroristiche, con ciò spiegandosi la riluttanza delle potenze mondiali a sottostare ad organi sovranazionali con potestà giurisdizionale sui reati di "terrorismo".

Ancora, e da altro punto di vista: l'azione è terroristica e punibile anche quando tale azione sia diretti contro Stati dittatoriali, violenti o solo apparentemente ammantati di democraticità? Per citare come esempio due circostanza abbastanza note: Cicerone esclude che chi uccide un tiranno possa essere chiamato assassino, e Friedrich Staps nel 1809 riteneva un "dovere" uccidere Napoleone.

Ancora: l'azione è terroristica e dunque vietata anche quando essa si cali in contesti di violenza etnica o di guerra civile? Anche quando pretenda di affermare con la forza e la violenza diritti fondamentali o la democrazia?

Se questo è - in estrema sintesi, e rimandando per una disamina più completa del fenomeno ai documenti pubblicati sul sito www.studiperlapace.it - il quadro delle resistenze a livello internazionale, anche la normativa nazionale risente delle medesime difficoltà.

Vero è che il legislatore italiano - spronato dall'onda emotiva e dalle preoccupazioni di ordine pubblico provocate dalle drammatiche vicende dell'11 settembre - ha varato in via d'urgenza il decreto legge n. 374/2001 ("Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale") conl'intento, da un lato, di colmare la lacuna normativa preesistente e dall'altro, di approntare metodi di indagine e di repressione più pervasivi.
La legge di conversione 438/2001, ha poi definitivamente introdotto l'art.270 ter del codice penale che stabilisce che "chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni.. (...) Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione e un organismo internazionale (...)". La norma citata è frutto di una legislazione cd. di emergenza che anche in questo caso rovescia sull'interprete i problemi di coordinamento. Infatti, la norma pone una serie di problemi interpretativi di non facile soluzione, dai quali dipende non solo la compatibilità costituzionale della norma ma la cogenza stessa della norma, cioè la sua possibilità di applicarla.

Sembra infatti trattarsi di una pura tautologia, laddove punisce "chiunque promuova associazioni che si propongano atti di violenza su persone o cose, con finalità di terrorismo". E' infatti indiscutibile il fatto che la norma non "descrive" il comportamento vietato: l'azione terroristica si risolve per la norma nell'azione violenta posta in essere con "finalità di terrorismo", non chiarendo dunque cosa significhi la "finalità di terrorismo".

Le difficoltà interpretative emergono soprattutto se rapportato sul piano internazionale, e dunque in ciò sta la ragione delle decisioni giudiziali di cui alle recenti cronache: se per i reati di terrorismo e di eversione "interni" si ha come parametro l'ordinamento democratico o il suo equivalente "ordinamento costituzionale", lo stesso non potrà dirsi nel caso di terrorismo internazionale, posto che l'integrità politica, economica e sociale di un paese straniero non rientra nei compiti punitivi dello stato (italiano).

Delle insidie legate alla introduzione della fattispecie di terrorismo "anche" internazionale (rubrica dell'articolo 270 bis) sembrava consapevole anche il decreto legge 374/2001, che vietava di procedere senza l'autorizzazione del Ministero della Giustizia, e ciò al fine "di consentire -come si legge nella relazione al decreto legge - una attenta valutazione politica dei fatti, riguardanti nei possibili e delicati riflessi sui rapporti internazionali" (sic!).

L'assenza di una nozione specifica del "fine di terrorismo" rischia di trasformare la fattispecie criminale in un magma indefinito, consentendo la integrazione della fattispecie sulla base delle scelte e delle selezioni politiche dell'esecutivo, o - peggio - del giudicante, il quale suo malgrado dovrà o assolvere per indeterminatezza della fattispecie incriminatrice oppure procedere ad una interpretazione integrativa. Entrambe le soluzioni sarebbero ugualmente illegittime. Il fatto deve configurare un reato in forza di una norma penale, e né il giudice né l'esecutivo possono creare o modellare, con apprezzamenti discrezionali o politici, una nozione di fine di terrorismo internazionale.

Certo è che perseguendo l'obiettivo della sconfitta del terrorismo vi è il rischio - evidente anche leggendo le dichiarazioni di questi giorni - di violare le libertà fondamentali: in una dichiarazione comune Mary Robinson (Alto Commissariato per i Diritti Umani dell'ONU), Walter Schwimmer (Segretario Generale del Consiglio d'Europa e Gérard Stoudmann (Direttore dell'Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell'OSCE) in data 29 novembre 2001 avvertono che sono particolarmente a rischio la presunzione di innocenza, il diritto ad un giusto processo, il divieti di torture, i diritti alla privacy, la libertà di espressione e di assemblea ed il diritto di chiedere asilo, ribadendo che colpendo determinati gruppi etnici o religiosi, le misure antiterroristiche potrebbero risultare contrarie alle leggi sui diritti umani ed agli impegni internazionali e conterrebbero il rischio di provocare l'aumento pericoloso di discriminazione e razzismo.

Speriamo vengano smentiti.

Nicola Canestrini
avvocato (www.canestrinilex.it)

La sentenza della Corte d'Appello di Milano

Pubblicato da Redazione 19-10-2006 13:04

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LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
A seguito di giudizio abbreviato, il Giudice dell'Udienza Preliminare del Tribunale di Milano, con sentenza in data 24 gennaio 2005, ha assolto Bouyahia Maher Ben Abdelaziz (detenuto presente), Toumi Alì Ben Sassi (detenuto presente) e Daki Mohamed (detenuto presente), perché il fatto non sussiste, dal capo 1 della rubrica:
-art. 270bis C.P. in quanto si associavano tra loro e con altre perso ne allo scopo di compiere atti di violenza con finalità di terrorismo internazionale, in Italia e all'estero, all'interno di un'organizzazione sovrannazionale, localmente denominata con varie sigle (tra cui Ansar Al Islam), comunque operante sulla base di un complesso programma criminoso, condiviso con similari organizzazioni attive in Europa, Nord Africa, Asia e Medio Oriente, contemplante:
°preparazione ed esecuzione di azioni terroristiche... il tutto nel quadro di un progetto di Jihad... nel senso di strategia violenta per l'affermazione dei principi "puri" della religione musulmana;
°il favoreggiamento della immigrazione illegale in Italia e verso altri Stati dei militanti;
°il procacciamento di documenti falsi d'identità per i componenti dell'organizzazione;
°il reclutamento di persone da inserire nell'associazione ed eventualmente inviare in campi di addestramento u bicati principalmente in Iraq;
°l'invio di militanti nelle zone di guerra a sostegno delle attività terroristiche...;
°la raccolta di finanziamenti necessari per il raggiungimento degli scopi dell'organizzazione;
°il proselitismo effettuato (anche nei luoghi di culto e di riunione siti in Milano, come la moschea di Via Quaranta e un appartamento di Via Cilea n. 40) attraverso videocassette, audiocassette, documenti propagandistici e sermoni incitanti al terrorismo e al sacrificio personale in azioni suicide destinate a colpire il nemico infedele;
°la predisposizione, comunque, di tutti i mezzi necessari per l'attuazione del programma criminoso dell'associazione e per il sostegno ai "fratelli" ovunque operanti secondo il descritto programma;
In particolare, operando nell'associazione: Mullah Fouad, Abderrazak Madjoub, Ciise Maxamed Cabdullaah e Mera'j con funzioni direttive e organizzative nell'ambito della cellula operante a Milano e in altre zone del territorio italiano....
Daki Mohammed, quale semplice partecipe, con condotta consistita nel dare ospitalità e nell'assicurare approvvigionamento di documenti falsi a membri dell'associazione (tra cui lo stesso Ciise Maxamed Cabdullaah);
Bouyahia Maher Ben Abdelaziz, quale semplice partecipe, fungendo da raccordo in territorio turco (segnatamente nella città di Istambul) tra i capi dell'organizzazione trasnazionale e l'attività dei membri della cellula italiana;
Toumi Alì, quale semplice partecipe, provvedendo principalmente al reperimento di documenti falsi e di altro materiale logistico (computer, telefoni, etc..) necessari allo svolgimento dell'attività associativa;
Associazione avente il suo principale centro operativo italiano in Milano, tuttora operante anche in altre l ocalità nel territorio italiano (oltre che all'estero) a partire almeno dal luglio 2001.
Con la stessa sentenza ha condannato Bouyaahia e Toumi per i delitti di ricettazione continuata (capo 2) e favoreggiamento dell'ingresso illegale di persone nel territorio dello Stato ovvero in altri Stati dei quali le persone non erano cittadine o non avevano titolo di residenza permanente (capo 3) - esclusa l'aggravante di cui all'art. 1 l. 15/1980 e riuniti i delitti dal vincolo della continuazione - alla pena di anni tre di reclusione ed euro 14.000,00 di multa ciascuno; ha condannato inoltre Daki per il delitto di ricettazione continuata di cui al capo 2 - esclusa l'aggravante di cui all'art. 1 l. 15/1980 - alla pena di un anno, mesi dieci di reclusione ed euro 500,00 di multa.
La motivazione della decisione del GUP è incentrata sui seguenti punti e passaggi logici essenziali.
Il giudice ha premesso che, dopo i no ti e tragici fatti dell'11 settembre 2001 e del conseguente attacco statunitense all'Afghanistan, in molti Stati europei erano state avviate indagini finalizzate all'individuazione di cellule che fungevano da supporto a strutture combattenti di matrice islamica, soprattutto attraverso il reclutamento e l'invio di militanti, per lo più muniti di documenti falsi, nonché di mezzi di finanziamento.
Le indagini in Milano, zona già in passato ritenuta importante snodo di personaggi gravitanti negli ambienti dell'estremismo islamico, erano state avviate dalla DIGOS della locale Questura (nel marzo 2002) attraverso servizi di osservazione ed intercettazione su Abu Omar (Nasr Osama Moustafà Hassan), già iman della moschea di Via Quaranta e in precedenza in contatto con personaggi, quali Abu Salah (Es Sayed Abdelkader Mahmou), già inquisiti e condannati in precedenti inchieste. Parallelamente, il ROS dei carabinieri aveva avviato analoghe indagini, incentrate sull 'iman della moschea di Cremona, Trabelsi Mourad, e su personaggi allo stesso legati (Drissi Noureddine e Hamraoui Kamel Ben Mouldi).
Ha ritenuto che nel presente procedimento non fossero utilizzabili le c.d. fonti di intelligence, quali le notizie riportate nei rapporti della Digos e dei Ros come provenienti da segnalazioni da parte di organismi americani o dal BKA tedesco.
Parimenti ha ritenuto non utilizzabili le audizioni in carceri irachene da parte della Polizia norvegese, senza l'assistenza di un difensore, di soggetti che apparivano indagati in procedimenti connessi al presente, nonché le c.d. fonti aperte (fonti giornalistiche e siti internet) dalle quali erano state tratte notizie sulla struttura asseritamente terroristica di Ansar Al Islam.
Tra gli elementi raccolti a carico dell'egiziano Abu Omar (che era giunto in Italia nel 1997 e aveva ottenuto lo stato di rifugiato politico; lo stesso era stato sequestrato da ignoti in circostanze misteriose il 17.2.2003) ha preso in considerazione la conversazione intercettata il 15.6.2002 alle ore 22,15 negli uffici della moschea di Via Quaranta tra il predetto Abu Omar e un ignoto interlocutore, proveniente dalla Germania, nel corso della quale si era anche parlato di una riunione tenutasi in Polonia, finalizzata a costituire una struttura militare trasnazionale.
Ha osservato il giudicante che da questa conversazione non emergevano (come avevano ritenuto gli inquirenti) rapporti con la struttura terroristica Al Tawhid (capeggiata dal noto Al Zarkawi Abu Mussab) e che, comunque, il predetto Abu Omar non figurava tra gli appartenenti all'associazione di cui al capo 1, pur avendo avuto contatti con appartenenti a detta associazione.
Ha poi indicato da quali atti emergevano le seguenti circostanze.
Nel luglio 2002 Abu Omar aveva avuto contatti con persone (all'epoca) residenti a Parma, Via della Martinella 132, identificate in Mohammed Tahir Hammid, Mohammed Amin Mostafà e Muhammad Maijd, quest'ultimo riconosciuto (in successive emergenze) come il Mullah Fouad.
Da conversazioni intercettate nel dicembre 2002 nei confronti del predetto Mohammed Tahir Hammid, era risultato che Mullah Fouad (che aveva lasciato l'Italia l'8.10.2002) si era spostato in Kurdistan e che il predetto Mohammed Tahir Hammid era coinvolto nella raccolta di finanziamenti e di volontari per far fronte all'imminente attacco statunitense contro l'Iraq. Anche Mohamed Amin Mostafà si era recato in Kurdistan all'inizio dell'anno 2003, facendo ritorno in Italia il 10.1.2003.
Tra la fine del 2002 e l'inizio del 2003, era stato individuato Mera'j (identificato in El Ayashi Radi Abd El Samie), quale vertice in Milano di una rete di estremisti islamici dedita al reclutamento e all'invio di volontari, per lo più mun iti di documenti contraffatti, in campi di addestramento siti nel nord iracheno. Mera'j era risultato in contatto sia con Abu Omar sia con Mohammed Tahir Hammid.
Nella sentenza di cui trattasi sono riportati elementi di prova raccolti a carico di Mera'j:
-conversazioni telefoniche nelle quali si era parlato di denaro raccolto, presumibilmente da inviare in Iraq; della liberazione in Olanda di Mullah Krekar (fondatore e vertice di Ansar Al Islam); di invio di volontari e del percorso che gli stessi avrebbero dovuto compiere per giungere in Iraq;
-sequestro di un'agendina con annotazioni codificate di utenze satellitari stanziate in Iraq e in Siria;
-contatti sia con Mullah Fouad sia con Lokman Amin Mohammed e Bamarni Adnan Omed (detto il dottore), persone domiciliate in Germania e coinvolte nell'invio di somme di denaro in Medio Oriente.
Si dà poi conto d ello sviluppo delle indagini, dalle quali erano emerse le seguenti circostanze.
I due curdi stanziati a Parma (Mohammed Tahir Hammid e Mohamed Amin Mostafà) erano risultati in rapporti con Trabelsi Mourad, iman della moschea di Cremona, con la finalità di inviare somme di denaro nelle zone mediorientali investite dall'attacco americano. Tutti i predetti erano risultati anche in contatto, per lo stesso scopo, con Abu Alì (Drissi Noureddine), il quale all'epoca si trovava in Medio Oriente.
Il 23 marzo 2003 Mullah Fouad aveva preannunciato a Mera'j l'arrivo in Italia del somalo Mahammad (identificato in Ciise Maxamed Cabdullaah), da trattare con riguardo e da munire di documento idoneo a consentirgli di raggiungere il Medio Oriente. Del documento da fornire al somalo si era interessato anche Abderrazak Mahdjoub, personaggio di spicco nel gruppo, residente ad Amburgo e, dal 20.3. al 21.5 2003, spostatosi in Medio Oriente. Questi ave va indicato Daki Mohamed - persona che aveva soggiornato ad Amburgo e che all'epoca viveva a Reggio Emilia - come lo "specialista in queste cose" che avrebbe procurato al somalo il passaporto che gli occorreva, dandogli il proprio. Ciise e Daki si erano incontrati a Reggio Emilia il 28.3.2003, ma quest'ultimo non aveva consegnato al somalo il proprio passaporto né era riuscito a procurargli altro documento. Mera'j si era dato nel frattempo da fare per procurare al Ciise il documento di cui lo stesso aveva bisogno. Ciise, che era stato ospitato da Daki a Reggio Emilia, si era reso conto di essere seguito dalla Polizia. Abderrazak aveva invitato Ciise a spostarsi in Francia.
Il giorno 30 marzo 2003 erano state intercettate conversazioni telefoniche ritenute di notevole interesse:
-alle 15,17 tra Mera'j e Ciise, nella quale Mera'j riferiva di aver trovato documento di "altri tipi, non quelli per quella nazione che mi hai chiesto" ;
-alle 17,57 tra Mera'j e Mullah Fouad, in cui quest'ultimo aveva invitato l'interlocutore a inviargli "gente sveglia...che colpisca la terra e fa uscire il ferro" chiedendogli di cercare "quelli che stavano a Jaban";
-alle 20,41 tra Mera'j e Kamal (identificato in Hamraoui Kamel Ben Mouldi, abitante a Cremona e collegato a Trabelsi), in cui quest'ultimo affermava "non hanno bisogno di uomini lì, hanno bisogno di uomini qui, metà degli uomini cercano finanziamenti, metà restano qui...".
Sulla base delle suddette risultanze, Il Gip del Tribunale di Milano, in data 1.4.2003, aveva emesso ordinanza cautelare nei confronti di Mera'j (arrestato 1.4.2003), dei due parmensi (Mohammed Tahir Hammid e Mohammed Amin Mostafà), arrestati il 31.3.2003) e di Ciise (arrestato il 1.4.2003) nonché nei confronti di Trabelsi Mourad, Hamraoui Kamel Ben Mouldi e Drissi Noureddine. Con successiva ordinanza cautelare in da ta 4.4.2003 era stato arrestato (lo stesso 4.4.2003) anche Daki Mohamed.
A Mera'j era stata sequestrata la somma di 1.500,00 euro, verosimilmente destinata a Ciise, mentre quest'ultimo aveva nelle sue carte annotato il numero dell'utenza telefonica di Lokman.
I predetti Mera'j e Ciise, lo stesso giorno dell'arresto, erano stati tenuti in un locale della Questura di Milano, dove era stata intercettata una loro conversazione, nella quale si erano definiti mujaeddin (combattenti); in questa conversazione i due si erano anche scagliati contro gli Stati Uniti, Israele e il governo italiano; si erano detti che molto presto costoro l'avrebbero pagata; che vivevano per la Jihad e che desideravano morire martiri.
Daki, interrogato, aveva dichiarato di aver ospitato il somalo su richiesta del suo amico Abderrazak, dimorante ad Amburgo, città dove egli aveva studiato e soggiornato; il somalo era alla ricerca di un passaporto, con il quale intendeva raggiungere Abderrazak, che in quel momento si trovava in Siria, per poter poi combattere insieme allo stesso in Iraq; egli si era rifiutato di dargli il proprio passaporto; aveva conosciuto Mera'j e Ciise solo in questa occasione; nel 1997 aveva conosciuto ad Amburgo Ramzi Omar Binalshibh (sospettato di essere implicato negli attentati dell'11 settembre) e aveva fornito al predetto il proprio indirizzo, da utilizzare come recapito postale.
Ciise, in un primo interrogatorio, si era avvalso della facoltà di non rispondere; successivamente (21.10.2003) aveva ammesso di essere giunto in Italia per procurarsi un passaporto falso.
Anche Mera'j, dopo l'arresto, si era avvalso della facoltà di non rispondere; successivamente aveva chiesto di essere sentito dal P.M. e, in data 29.7.2003, aveva negato di appartenere a sodalizi terroristici; aveva ammesso di aver mandato in Iraq, attraverso la Siria , alcuni volontari combattenti per ragioni di Jihad nell'imminenza dell'attacco americano; aveva ammesso di aver conosciuto a Milano i due curdi di Parma e Mullah Fouad, con il quale aveva poi avuto intensi rapporti telefonici, dovuti al comune interesse di far giungere in Iraq volontari combattenti; a Milano aveva conosciuto anche Abu Omar, che - a suo dire - era scomparso "per un tipico lavoro sporco da servizi segreti"; aveva negato di aver conosciuto Trabelsi Mourad, ma aveva ammesso di aver conosciuto sia Drissi (alla fine del 2002) sia Hamraoui (nel marzo 2003).
Mohammed Tahir Hammid aveva deciso progressivamente di collaborare e, in data 29.10.2003, pur dichiarandosi estraneo ad ogni organizzazione terroristica, aveva dichiarato che il gruppo milanese facente capo a Mera'j e quello cremonese facente capo a Trabelsi costituivano i punti di riferimento organizzativo, nel Nord Italia, per il passaggio attraverso la Siria di volontari combattenti aventi c ome destinazione l'Iraq; in Siria il referente della struttura era il Mullah Fouad; egli stesso aveva mandato denaro a Drissi, che si trovava in Kurdistan, denaro che gli era stato consegnato da Trabelsi e che egli aveva a sua volta consegnato al referente tedesco Bamarni (il dottore); egli aveva fatto parte di Ansar Al Islam, nel settore propaganda, e aveva visitato nel 1999 uno dei campi della struttura, allora gestita da gruppi diversi, poi confluiti in Ansar Al Islam; aveva sentito dire che questa organizzazione era in contatto con Al Qaeda e che aveva in progetto l'utilizzo di kamikaze all'interno dei confini iracheni, pur se la svolta verso dette forme di violenza era oggetto di discussione tra i componenti dell'organizzazione; aveva indicato come inseriti nell'organizzazione, diretta dal Mullah Krekar, sia il Mullah Fouad sia Lokman e Bamarni.
In un successivo interrogatorio (in data 5.2.2004), alla vigilia della concordata applicazione della pen a, Mohammed Tahir aveva specificato che nei campi di Ansar Al Islam i combattenti si addestravano anche a compiere azioni terroristiche (secondo il giudicante, l'espressione contenuta nel verbale riassuntivo doveva intendersi come sinonimo di azioni violente), non escludendo che una frangia dell'organizzazione pensasse di compierle anche all'estero.
Mohammed Amin Mostafà aveva ammesso solo di aver accompagnato, in un'occasione, Abu Omar da Parma a Milano e che aveva saputo che il Mullah Fouad era andato in Siria; aveva dichiarato di conoscere Mera'j e Bamarni, ma aveva negato di conoscere Drissi e Trabelsi.
Con riguardo al gruppo dei "cremonesi", era risultato che Drissi si era recato in Iraq nel dicembre 2002, mantenendo contatti telefonici (intercettati) con Trabelsi, al quale aveva richiesto aiuti economici da fargli giungere tramite il canale tedesco. Il 17 e 18 marzo 2003, Trabelsi e Hamraoui avevano consegnato a Mohammed Thair 500,00 euro da trasmettere in Medio Oriente a Drissi (che si trovava in un campo di Ansar Al Islam) attraverso i referenti tedeschi. Drissi era poi riparato in Iran e da qui era stato espulso in Italia, dove era stato arrestato il 5.5.2003.
In sede di interrogatorio, Drissi aveva respinto ogni addebito, asserendo che si era recato in Medio Oriente per problemi di salute.
Trabelsi aveva dichiarato che era stato fin dal 1966 uno dei responsabili del Centro Islamico di Cremona; aveva ammesso di aver inviato del denaro a Drissi, a suo dire provento di vendite effettuate in Italia dallo stesso Drissi; aveva negato di conoscere Mera'j e di aver mai fatto parte di gruppi terroristici.
Hamraoui aveva dichiarato di aver accompagnato in qualche occasione Trabelsi, conosciuto nella moschea di Cremona.
L'inchiesta incentrata a Milano aveva avuto sviluppi in base ai quali, in data 25.1 1.2003, il GIP aveva emesso ordinanza cautelare, oltre che nei confronti di Abderrazak Mahdjoub (arrestato il 28.11.2003), anche nei confronti di Bouyahia Maher Ben Abdelaziz (arrestato il 28.11.2003), Housni Jamal (arrestato il 28.11.2003), Bentiwaa Farida Ben Bechir e Muhamed Majid (Mullah Fouad, il quale aveva lasciato l'Italia l'8.10.2002) nonché nei confronti di Toumi Ben Sassi (in stato di fermo di P.G. dal 22.11.2003).
Nella sentenza si riporta il contenuto dell'informativa dei ROS in data 3.10.2003, nella quale era delineata la figura di Bouyahia Maher. Costui è il fratello di Bouyahia Hamadi (implicato in una precedente inchiesta e condannato dalla Corte d'Assise di Milano con sentenza del 9.5.2005, ma assolto dal delitto di cui all'art. 416 C.P.). Bouyahia Maher era stato individuato a Milano, in compagnia del fratello Hamadi, già nel maggio 2002, quando quest'ultimo - da una sede della Western Union in Via Panfilo Castaldi - aveva effettuato un trasferimento di 775,00 euro a Singapore a favore di persona successivamente identificata nel libico Zoghbai Merai, detto F'radi il Libico (personaggio indicato in un contesto informativo come appartenente ad Al Qaeda).
Nella citata informativa era stato riferito che i due fratelli avevano vissuto a Milano, in Corso XXII Marzo n. 39; che Hamadi (espulso dall'Italia nel maggio 2002) era stato arrestato nell'ottobre 2002 a Malta (e da Malta consegnato all'Italia); che nello stesso ottobre 2002 Bouyahia Maher si era trasferito in Medio Oriente dove avrebbe frequentato il campo militare di Khurmal; che nel dicembre 2002 avrebbe ricevuto l'ordine di andare ad Istambul, al fine di raccogliere volontari da instradare verso il suddetto campo di addestramento; che era stato arrestato in Turchia nel 2003 e, una volta rilasciato, era andato in Grecia e poi - l'11.8.2003 - era rientrato in Italia.
Nella sentenza si è ripo rtato il contenuto di alcune telefonate intercettate nel maggio-giugno 2002 sull'utenza in uso a Bouyahia Maher, dalle quali erano emersi contatti del predetto con F'radi il Libico (all'epoca a Istambul), il quale aveva bisogno di documenti d'identità ovviamente falsi. In queste conversazioni Bouyahia Maher aveva consigliato F'radi di non frequentare un certo albergo di Istambul (dicendogli che aveva contatto con i cani); il 5.6.2002 Bouyahia Maher aveva parlato anche con Zarkaoui Imad, al quale aveva chiesto notizie del "documento di quello di Istambul", facendo evidente riferimento al F'radi.
In data 12.7.2002 era stato perquisito l'appartamento di Corso XXII Marzo, dove viveva Bouyahia Maher, ed era stato sequestrato un manuale relativo all'addestramento del mujaeddin; la somma di euro 8.525,00; un documento contraffatto con apposta la foto dell'Hammadi; numerose foto tessere di extracomunitari (tra le quali anche quella di F'radi il Libico). Detto appart amento era stato di nuovo perquisito il 9.10.2002 - alla presenza di Bouyahia Maher - e nell'occasione era stata sequestrata la somma di 1.400,00 euro.
Nei primi mesi del 2003, nel corso delle intercettazioni a carico di Mera'j, era emerso che lo stesso Bouyahia Maher era in contatto telefonico con il predetto e che si trovava in Turchia. Dal contenuto di dette conversazioni era risultato che il Maher era il referente, in territorio turco, per il reperimento e l'invio di documenti contraffatti e di altro materiale, cellulari e computer, finalizzato a consentire contatti internazionali sicuri. In particolare, era risultato che il giorno 27.2.2003, su incarico di Mera'j, Housni Jamal ( in seguito arrestato il 28.11.2003, in esecuzione dell'ordinanza cautelare del 25.11.2003) aveva portato in Turchia a Maher un cellulare marca Nokia.
In data 11.8.2003, Bouyahia Maher aveva chiamato dalla Grecia una donna abitante a Padova, identifica ta in Bentiwaa Farida Ben Bechir. La predetta era già emersa in una telefonata del 17.3.2003 tra Bouyahia Maher e Toumi Alì Ben Sassi (presidente di una cooperativa di lavoro a Milano) nella quale il primo aveva incaricato il secondo di interessarsi al permesso di soggiorno della predetta; nella stessa telefonata Maher aveva chiesto a Toumi (che evidentemente si doveva recare in Turchia) di portargli uno o due computer.
Bouyahia Maher, una volta in Italia, prudenzialmente non si era recato a Milano. In data 1.10.2003 era stato controllato a Bologna e, poiché sprovvisto di permesso di soggiorno, era stato accompagnato in un Centro di Accoglienza.
Il giorno dopo (2.10.2003) era stata perquisita l'abitazione di Bentiwaa Farida ed erano stati sequestrati un falso permesso di soggiorno intestato a Bouyahia Maher, documenti contraffatti intestati a Mokrani Hakim e la somma di 200.675,00 euro.
In data 13.10.200 3, Bouyahia Maher, telefonando dal Centro di Accoglienza a suo fratello in Tunisia, era stato tranquillizzato sulla somma sequestrata alla Bentiwaa, essendosene la stessa accollata la proprietà; i due erano preoccupati che da un controllo del passaporto si potesse risalire al soggiorno in Turchia di Bouyahia Maher.
Nella sentenza impugnata, a questo punto, sono state esaminate le risultanze a carico di Toumi Alì Ben Sassi.
Sono state prese in esame le intercettazioni telefoniche (a partire dal 16.2.2003) attestanti i contatti del predetto con Mera'j e Bouyahia Maher, dalle quali era emerso che il predetto imputato era coinvolto nella formazione di documenti falsi, svolgendo anche compiti di corriere per la consegna di questi documenti e di computer.
Nel concludere la conversazione con Maher del 17.3.2003 ore 18,27, Toumi aveva esclamato "Allah faccia vincere i ragazzi", evidentemente riferita agli imm inenti combattimenti sul fronte iracheno.
Nella conversazione del 23.3.2003 ore 17,47, un certo Habib, dopo aver parlato con Toumi di un passaporto, aveva detto di dover andare in guerra (partecipare alla Jihad), aggiungendo che comuni amici erano stati catturati dagli americani.
Nella conversazione del 27.3.2003 ore 14,04, parlando ancora con Habib che si apprestava a partire per la guerra in Iraq, Toumi aveva rivolto inviti ad essere ben organizzati e alla segretezza assoluta.
In data 15.11.2003 la Digos di Milano aveva perquisito l'abitazione e la sede della società del Toumi, rinvenendo numerose fotocopie di documenti d'identità e di buste paga nonché dichiarazioni relative a procedure di regolarizzazione di stranieri.
Erano state poi avviate operazioni di intercettazione nell'abitacolo dell'auto in uso al Toumi e, nella conversazione intercettata il 20.11.2003 alle ore 12,28 , Toumi, parlando con un certo Adel, si era riferito a personaggi di comune conoscenza, tra i quali Habib, morti in guerra da martiri; aveva anche informato il suo interlocutore che la sua casa era stata "attaccata" dalla Polizia, aggiungendo "purtroppo la vita è questa, ma saremo ricompensati da Allah".
In data 22.11.2002, poiché da una conversazione con un certo Shawki si era appreso che Toumi aveva intenzione di recarsi in Tunisia per la festa del fine Ramadam, il predetto era stato posto in stato di fermo di P.G..
Bouyahia Maher, nell'interrogatorio 1.12.2003, aveva negato di appartenere ad organizzazioni terroristiche; si era allontanato dall'Italia dopo l'arresto di suo fratello e la perquisizione della sua abitazione dell'ottobre 2002, andando in Turchia, da dove non si era mai mosso, salvo andare in Grecia senza documenti; aveva conosciuto Mera'j, amico di suo fratello, al quale aveva chiesto documenti d'identità, in quanto aveva smarrito i propri; nel marzo 2003 era venuto in Turchia Housni Jamal, il quale non gli aveva recapitato alcunché se non piccole somme di denaro; ammetteva di aver falsificato il permesso di soggiorno a suo nome, trovato a casa della Bentiwaa, sua lontana parente; ammetteva di aver indicato a F'radi il Libico un hotel di Instambul, ma negava di aver mandato denaro allo stesso o documenti falsi; ammetteva i rapporti con Toumi, suo amico d'infanzia.
Toumi, nell'interrogatorio in data 25.11.2003, aveva ammesso i rapporti con Mera'j, conosciuto nel 2001 nel Centro Islamico di Viale Jenner, e con Bouyahia Maher, fornendo - secondo il giudicante - una versione poco credibile in ordine al tenore di questi contatti. In ordine alle foto tessere sequestrate presso la sua abitazione, aveva sostenuto che erano state trovate nel marsupio di suo fratello Habib, poi partito per la Francia. Aveva ammesso di aver conosciuto Morchidi Kamal (i documenti del quale erano stati rinvenuti nel campo di Kurmal) e che Habib, con il quale aveva parlato in una conversazione intercettata, era morto in guerra.
Bentiwaa, in sede di interrogatorio, aveva ammesso i rapporti con Bouyahia Maher; lo stesso l'aveva contattata poiché aveva bisogno di un documento contraffatto, ma lei non era riuscita a procurarglielo; non aveva mai saputo che Maher avesse fatto parte di gruppi di matrice islamica; i documenti intestati al predetto, rinvenuti nel corso della perquisizione, le erano stati dati dalla madre dello stesso in Tunisia, con la richiesta di recapitarli al figlio; circa la somma sequestrata, aveva riferito che parte era provento dell'attività di prostituzione della donna che abitava con lei e parte provento di traffici di droga del proprio fratello Ouisam; Bouyahia l'aveva messa in contatto con Toumi, al fine di farle ottenere una falsa dichiarazione di lavoro con la quale ottenere il permesso di soggiorno in Italia, ma per avere qu esta falsa dichiarazione essa Bentiwaa aveva dovuto versare a Toumi 800,00 euro.
Mera'j, sentito nuovamente circa i suoi rapporti con Bouyahia Maher, aveva affermato di averlo conosciuto nella moschea di Via Quaranta verso la fine del 2002; l'aveva poi perso di vista, ma all'inizio del 2003, richiesto di sue notizie da di lui parenti che avevano sentito dire che era morto in guerra, si era messo in contatto con Mullah Fouad che l'aveva rassicurato sulla sorte di Bouyahia; era poi riuscito a contattare lo stesso, il quale gli aveva chiesto un computer per il Moullah Fouad; egli si era rivolto a Toumi che ne aveva procurato uno usato, facendolo pervenire in Turchia.
Nella sentenza impugnata sono stati quindi esaminati gli esiti delle rogatorie in Norvegia, in Germania e in Francia.
In Norvegia era stato interrogato, con le garanzie difensive, Najmuddin Faraj Ahmad, noto come Mullah Krekar, il quale aveva dichiarato di aver fondato Ansar Al Islam (traducibile in sostenitore dell'Islam) il 10.12.2001 con base logistica nel nord dell'Iraq e con l'obiettivo di combattere i nemici dell'Islam, anche militarmente; l'organizzazione curava anche l'addestramento militare, ma non aveva tra i suoi fini azioni terroristiche; aveva conosciuto solo Mullah Fouad, Mohammed Tahir e il Bamarni tra i personaggi coinvolti nell'inchiesta da cui è scaturito il presente processo.
Era stato acquisita anche la documentazione sequestrata al predetto, al momento del suo arresto in Olanda (12.9.2002), nella quale vi era anche il programma della sua organizzazione.
Il giudicante ha ritenuto non utilizzabili le dichiarazioni rese alla Polizia norvegese da soggetti detenuti in Iraq, in quanto costoro - sebbene fossero stati sentiti come appartenenti ad Ansar Al Islam, e quindi dovessero essere considerati indagati in procedimenti connessi - non erano stat i sentiti alla presenza di un difensore.
In Germania era stato sentito Shadi Abdallah - gia appartenente all'organizzazione Al Tawid del noto Al Zarkawi - ma il giudicante ha ritenuto ininfluenti nel presente processo le dichiarazioni del predetto, peraltro non riguardanti Ansar Al Islam, poiché non risultava che l'organizzazione nella quale lo stesso era stato inserito avesse avuto legami con Ansar Al Islam.
Nell'ambito della rogatoria tedesca era stato sentito anche l'iracheno Lokman Mohammed Amin, il quale aveva ammesso i suoi rapporti con il connazionale Mullah Fouad, a suo dire inserito nel movimento islamico Haraka Al Islami (da un originario movimento islamico, erano nati tre gruppi: il predetto Haraka Al Islami, Ansar Al Islam e Gama'a Al Islamiya); a Monaco aveva incontrato in un'occasione il curdo Mohammed Amin Mostafà, il quale aveva rapporti con il curdo Bamarni, incaricato di trasferimenti di denaro in Medio Orie nte a connazionali; aveva saputo che molti, una volta scoppiato il conflitto in Iraq, si erano recati in quel paese, attraverso la Siria, anche con l'aiuto di Moullah Fouad; aveva negato di conoscere Abderrazak e Mera'j.
Nell'ambito della rogatoria francese era stato sentito Tlili Lahzar, il quale nel 1998 aveva frequentato per sette mesi campi di addestramento in Afghanistan. Secondo il giudicante, le dichiarazioni del predetto non avevano influenza sulle persone coinvolte nel presente processo.
In sede di giudizio abbreviato, erano state acquisiti agli atti, oltre ad un'articolata memoria scritta del Pubblico Ministero, l'esame in incidente probatorio, davanti all'Autorità giudiziaria bresciana, del collaboratore Zouaoui Chokri; il verbale d'interrogatorio reso da Abderrazak Majoub nell'ambito di rogatoria passiva richiesta dall'Autorità giudiziaria spagnola; atti relativi alla rogatoria attiva in Germania concernenti l'audizio ne di Lokman Mohammed Amin; copia della sentenza emessa dall'Autorità giudiziaria tedesca nei confronti di Shadi Abdullah.
Alla stregua di tutti gli elementi raccolti, il giudice ha ritenuto accertato che la "cellula" milanese in questione aveva operato in concomitanza dell'attacco statunitense all'Iraq ed aveva come precipuo scopo il finanziamento, e più in generale il sostegno, di strutture di addestramento paramilitare site in zone mediorientali, presumibilmente stanziate nel nord dell'Iraq.
A tal fine, erano stati organizzati sia la raccolta e l'invio di denaro, sia l'arruolamento di volontari che venivano spesso muniti di documenti contraffatti.
In tal senso, secondo il giudicante, deponevano le conversazioni intercettate, e anche quella del 30.3.2003, nella quale Mullah Fouad aveva chiesto a Mera'j di cercare "quelli che stavano in Jaban", che al più si doveva interpretare come la ricerca di volont ari disposti, sempre nel contesto bellico, anche al diretto sacrificio della vita.
Peraltro, secondo il primo giudice, l'azione di un kamikaze non poteva essere definita, di per sé, terroristica, occorrendo l'ulteriore prova, vertendosi in un contesto bellico, dell'obiettivo avuto di mira, essendo terroristiche solo le azioni rivolte contro la popolazione civile.
Non risultava provato, secondo il primo giudice, che l'attività alla quale gli imputati avevano partecipato avesse in programma anche azioni di tipo terroristico.
L'attività della cellula milanese si era svolta nell'immediatezza e nella contestualità dell'attacco statunitense all'Iraq. Era in appoggio all'attività di truppe irregolari, formate da seguaci della religione islamica, che avevano scelto di andare a combattere in Iraq contro quello che definivano l'invasore americano.
Secondo il giudicante, la pressocché un anime dottrina internazionalistica aveva distinto chiaramente il limite tra guerriglia e terrorismo: nella prima, si combatte, anche attraverso una struttura paramilitare e clandestina, contro un esercito straniero occupante o contro un assetto statuale ritenuto illegittimo, indirizzando l'atto violento nei confronti di obiettivi militari; nel terrorismo, invece, si è in presenza dell'azione di gruppi, anche muniti di stabile organizzazione, che per i fini più vari, ma di solito con forti motivazioni ideologiche, colpiscono, anche in contesti bellici, indifferenziatamente obiettivi militari e civili, creando terrore indiscriminato nella popolazione.
A conforto della sua tesi, ha citato il progetto del 1999 della Convenzione Globale dell'O.N.U.; la Convenzione Internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 10.4.2002; la Decisione Quadro del Consiglio dell'Unio ne Europea del 13.6.2002, nella quale gli atti venivano definiti come terroristici, se compiuti con l'esclusivo scopo di intimidire gravemente la popolazione o di costringere indebitamente i pubblici poteri o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o di destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali di un paese o di una organizzazione internazionale.
Con D.L. 18 ottobre 2001 (convertito nella legge 15.12.2001 n. 438) era stato modificato l'art. 270bis C.P. (che puniva le associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico), estendendo la punibilità alle associazioni con finalità di terrorismo internazionale (che ricorre quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione e un organismo internazionale), per tutelare i singoli Stati - dopo i noti fatti dell'11 settembre 2001 - da attentati terroristici di ampio spett ro, posti soprattutto in essere in tempo di pace.
In effetti, secondo il primo giudice, le risoluzioni internazionali alle quali il legislatore italiano aveva inteso dare esecuzione con la predetta legge escludevano l'applicabilità delle stesse risoluzioni a situazioni in cui trovava applicazione lo jus belli, caratterizzato da una propria autonoma disciplina giuridica internazionale.
Secondo il primo giudice, per definire la posizione degli imputati, si doveva aver riguardo alle attività compiute nell'ambito della cellula milanese, e non all'organizzazione transnazionale in cui la stessa sarebbe stata organicamente inserita.
L'appartenenza dei componenti di tale cellula alla rete fondamentalista islamica e ad ambienti notoriamente eversivi con tentacoli deviati verso fenomeni terroristici non poteva essere elemento idoneo a suffragare la responsabilità penale dei predetti in ordine all'ipotizzato reat o associativo, ma semmai dato utile per unicamente supportare misure di polizia o di prevenzione.
Ha poi osservato il giudicante che, d'altra parte, nella stessa ordinanza cautelare del 25.11.2003 nei confronti di taluni elementi della cellula milanese (Bouyahia Maher, Abderrazak, Housni Jamal, Bentiwaa Farida e Mullah Fouad), nel delineare le caratteristiche di Ansar Al Islam, si era messo in evidenza come "l'attività di indagine non abbia messo in luce specifici progetti terroristici pianificati dall'organizzazione... e che gli attacchi contro le forze statunitensi, in quanto rivolti contro forze militari responsabili dell'occupazione di quel Paese non sarebbero di per sé rilevanti per l'applicazione delle nostre norme penali".
Ansar Al Islam, alla stregua degli elementi di prova raccolti, era risultata strutturata come una vera e propria organizzazione combattente islamica, munita di una propria milizia addestrata alla gue rriglia e finanziata anche da gruppi eversivi stanziati in Europa ed evidentemente appartenenti all'area del fondamentalismo islamico.
Gli imputati del presente processo, comunque, avevano agito soltanto nel periodo in cui era dato per imminente o addirittura in corso l'attacco degli Stati Uniti all'Iraq.
A sostegno della tesi concernente l'eterogeneità di detta struttura, e la presumibile deriva terroristica solo di alcune sue frange estremistiche, deponevano - secondo il primo giudice - l'attuale stato di libertà di Mullah Krekar (nonostante le dichiarazioni raccolte dagli inquirenti norvegesi nelle carceri irachene, ritenute all'evidenza inutilizzabili) nonché le dichiarazioni di Lokman, mentre il Bamarni risultava ristretto in Germania solo per reati in materia di immigrazione clandestina.
Neppure dalle dichiarazioni di Mohammed Tahir Hammid si potevano trarre elementi per affermare che Ansar Al Islam era un'organizzazione terroristica, essendosi il suddetto collaboratore limitato a dire che aveva sentito dire che Ansar Al Islam era in contatto con Al Qaeda e che aveva in progetto anche di utilizzare kamikaze all'interno dei confini iracheni, senza fornire alcun elemento di diretta cognizione al riguardo, e anzi significativamente aggiungendo che la svolta verso dette forme di violenza era stata oggetto di discussione tra i componenti dell'organizzazione. Si doveva, inoltre, mettere in evidenza che Mohammed Tahir Hammid non aveva indicato gli attuali imputati come componenti di Ansar Al Islam, della quale invece avevano fatto parte, a suo dire, solo Mera'j, Mullah Fouad, Lokman e Bamarni nonché gli esponenti della cellula cremonese.
Secondo il primo giudice, non erano rilevanti, per valutare la posizione degli imputati, le dichiarazioni rese dal collaboratore Zouaoi Chokri, il quale, oltre a non essere in possesso di conoscenze dirette, si era riferi to a persone diverse sia dagli attuali imputati sia dagli altri soggetti appartenenti al medesimo gruppo milanese.
Il primo giudice ha quindi assolto gli imputati dal delitto di cui all'art. 270bis C.P. con la formula perché il fatto non sussiste.
Per quanto riguarda i residui reati in contestazione, ha condannato Bouyahia e Toumi per i delitti di cui ai capi 2 e 3, in quanto gli stessi erano risultati attivi nel favorire il passaggio di volontari, muniti di documenti contraffatti, verso l'Iraq, e ciò nel periodo del conflitto internazionale del 2003.
Boyahia era risultato stanziato in Turchia, in costante contatto con Mullah Fouad a sua volta stanziato in Siria. Dalla Turchia trasmetteva, per via telematica, le fotografie delle persone che dovevano andare in Iraq, onde ottenere documenti contraffatti.
Toumi era risultato persona specializzata nel procurare la contraffazione di detti documenti ai suddetti fini.
Diverso discorso doveva essere fatto per l'imputato Daki, il quale - pur inserito negli ambienti del fondamentalismo islamico - non era risultato in alcun modo in contatto, prima dell'episodio riguardante la ricerca di un passaporto (marocchino) per il somalo Ciise, con gli altri componenti della cellula milanese. Il predetto doveva rispondere solo del reato di cui al capo 2, poiché era inserito nel settore della contraffazione dei documenti in discorso, alla stregua di come Abderrazak l'aveva segnalato (in una conversazione intercettata) al Ciise (uno specialista nel settore della contraffazione).
MOTIVI DI APPELLO DEL PUBBLICO MINISTERO
Il Pubblico Ministero, prima di esporre i motivi d'appello avverso la suddetta sentenza, ha ritenuto opportuno fornire il quadro delle indagini dalle quali è scaturito il presente filone d'indagine (n. 5236/02 R.G.P.M.), al fine soprattutto di dimostrare i collegamenti del presente procedimento con almeno altri due procedimenti, uno dei quali (n. 13016/99 R.G. P.M.) definito con sentenza del Tribunale di Milano in data 2.2.2004 passata in giudicato e l'altro (n. 36601/01 R.G. P.M.) definito dalla Corte d'Assise di Milano con sentenza in data 9.5.2005, in attesa del giudizio d'appello.
Il primo procedimento (c.d. inchiesta Al Muhajirun) si era sviluppato tra la fine del 1999 e il 2001 e, poiché all'epoca dei fatti non era ancora previsto nel nostro ordinamento il reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale (introdotto con legge 15.12.2001 n. 438), agli imputati era stato contestato il delitto di associazione per delinquere (art. 416 C.P.), perché dediti alla falsificazione di documenti e ad altri delitti, ma già era emerso, secondo il P.M., che l'attività del gruppo, il quale in Milano utilizzava, tra gli altri, l'appartamento di Viale Bligny n. 42, era implicata nell'invio di jihadisti in paesi come l'Afghanistan, per l'addestramento degli stessi ad azioni terroristiche.
I personaggi di maggior spicco dell'inchiesta Al Muhajirun erano risultati l'egiziano Abu Saleh (Es Sayed Abdelkader Mahmoud) e il tunisino Saber (Essid Sami Ben Chemais).
Il primo aveva operato anche nell'ambito del Centro Islamico di Via Quaranta 54 a Milano; era stato condannato in contumacia dal Tribunale di Milano con sentenza 2.2.2004 alla pena di anni 8 e mesi 4 di reclusione; era probabilmente deceduto in Afghanistan nel corso del recente conflitto.
Il secondo, domiciliato a Gallarate, capeggiava un gruppo di tunisini; era stato condannato con sentenza del GUP di Milano in data 22.2.2002 ad anni 4 e mesi 6 di reclusione.
Le indagini dell'altro procedimento (c.d. inchiesta Bazar), al quale il presente è collegato, si erano sviluppate t ra il 2001 e il 2003 e agli appartenenti al gruppo si era potuto contestare il delitto di cui all'art. 270bis C.P. nell'attuale formulazione (associazione con finalità di terrorismo internazionale).
L'indagine era stata avviata dal ROS di Milano e aveva riguardato una cellula radicale islamica, stanziale sul territorio lombardo, denominata Rete Hamza, caratterizzata da collegamenti con le strutture afghane, pronte ad accogliere i Mujaheddin di Al Qaeda; la suddetta rete era risultata composta prevalentemente da tunisini, dediti soprattutto alla falsificazione di documenti.
Personaggio centrale nell'inchiesta era risultato Hamza il Libico (Faraj Farj Hassan, attualmente detenuto in Inghilterra), giunto in Italia proveniente dall'Iran per pianificare azioni delittuose contro imprecisati obiettivi in Europa.
Erano risultati coinvolti nell'inchiesta Saadi Nassim, Cherif Said Ben Abdelhakim, Bouyahia Hamadi ( fratello di Bouyahia Maher Ben Abdelaziz), Lazher Ben Khalifa Ben Ahmed Rouine e Saadi Fadhal, tutti (eccetto Bouyahia Hamadi) condannati dalla Corte d'Assise di Milano in data 9.5.2005 per il delitto di cui all'art. 416 C.P. (avendo ritenuto la Corte insufficienti gli elementi che avrebbero dovuto dimostrare la finalità di terrorismo internazionale dell'associazione, ma su questo punto la Procura della Repubblica ha proposto appello).
Nella stessa inchiesta era stato coinvolto anche Zarkaoui Imed Ben Mekki, al quale era stato contestato (anche) il delitto di cui all'art. 270bis C.P., e avverso all'assoluzione (con sentenza del GUP di Milano in data 16.9.2003) del predetto dal menzionato reato la Procura della Repubblica aveva interposto appello.
Sempre nell'ambito dell'inchiesta Bazar, in data 1.4.2003 era stata emessa dal GIP di Milano ordinanza cautelare nei confronti di Trabelsi Mourad (iman della Moschea di Cremona), Hamraoui K amel Ben Mouldi (stretto collaboratore di Trebelsi) e Drissi Nourredine (appartenente ad Ansar Al Islam che, trasferitosi in Kurdistan, aveva ricevuto finanziamenti da Trabelsi), componenti della cellula cremonese la cui posizione, a seguito di provvedimenti d'incompetenza dell'autorità giudiziaria di Milano, era stata sottoposta all'Autorità giudiziaria di Brescia e Cremona.
L'inchiesta da cui è nato il presente processo è stata avviata dalla Digos di Milano nel marzo 2002, inizialmente nei confronti dell'egiziano Abu Omar (Nasr Osama Moustafà Hassan), il quale aveva ottenuto asilo politico in Italia perché esponente di un gruppo radicale egiziano; era risultato in contatto con Abu Saleh; aveva ricoperto le funzioni di Iman presso la Moschea di Via Quaranta a Milano, dove era giunto nell'estate del 2000, fino al giugno 2002, periodo nel quale aveva dovuto lasciare la Moschea perché accusato dai responsabili della stessa di raccogliere fondi per i fratelli m ujaeddin e per i familiari dei martiri.
Nel luglio del 2002 erano emersi contatti di Abu Omar con due curdi residenti a Parma, Mohammed Amin Mostafà e Mohammed Tahir Hammid, quest'ultimo già risultato in contatto con Abu Saleh. In particolare, il 21 luglio 2002, Abu Omar era stato riaccompagnato a Milano in macchina da Mohammed Amin Mostafà e Mullah Fouad (allontanatosi poi dall'Italia l'8.10.2002, per coordinare dalla Siria l'avvio di volontari verso i campi di addestramento nel nord dell'Iraq).
Una figura centrale nell'inchiesta era risultata tale Mera'j (identificato il 29.11.2001 in Al Ayashy Radi Abd El Samie Abou Elyazid nel corso di una perquisizione dell'Istituto Culturale Islamico di Viale Jenner n. 50 a Milano).
Costui, oltre che con i due suddetti curdi, era risultato in contatto con il Mullah Fouad e con Bouyahia Maher per organizzare la partenza di volontari per il Kurdistan e l'invio di somme di denaro in Medio Oriente.
Mera'j era risultato anche coinvolto, con altri esponenti dell'organizzazione, nel procacciamento di un passaporto per il somalo Ciise Maxamed Cabdullaah, il quale con detto documento doveva recarsi nella zona di guerra (all'epoca gli Stati Uniti erano già intervenuti in Iraq).
Per i fatti acclarati nel corso dell'inchiesta di cui trattasi erano stati emessi dal GIP del Tribunale di Milano due fondamentali ordinanze cautelari:
-una (in data 31.3.2003, appena si era sospettato che il somalo Ciise stesse per allontanarsi dall'Italia) nei confronti di Ciise Maxamed Cabdullaah (arrestato il 1.4.2003), Mera'j (arrestato il 1.4.2004) e dei due curdi di Parma Mohammed Amin Mostafà e Mohammed Tahir Hammid (arrestati il 31.3.2003);
-l'altra (in data 25.11.2003, quando si era appurato che Toumi Ali Ben Sassi stava per partire per la Tunisia) nei confronti di Toumi (già fermato il 22.11.2003), Bouyahia Maher (arrestato il 28.11.2003), Bentiwaa Farida Ben Bechir (arrestata, ha nel corso delle indagini preliminari chiesto il patteggiamento), Housni Jamal (arrestato il 28.11.2003), Abderrazak Mahdjoub (arrestato in Germania il 28.11.2003) e Mullah Fouad (il quale non risulta essere rientrato in Italia ed è ancora latitante).
Erano poi stati rinviati a giudizio, davanti alla Corte d'Assise di Milano (processo ancora in corso), Mera'j, Ciise, Mohammed Amin Mostafà (Mohammed Tahir Hammid aveva invece chiesto il patteggiamento), Abderrazak Mahdjoub, Housni Jamal e Mullah Fouad.
In data 31 marzo 2003, nel corso della perquisizione dei suddetti due curdi a Parma, erano stati sequestrati: una lettera del Mullah Krekar a Mohammed Tahir Hammid; un comunicato di Ansar Al Islam; un'audiocassetta di propaganda del Mullah Krekar; una videocassetta nella quale il Moullah Fouad e Mohammed Tahir Hammid chiedevano ad appartenenti all'organizzazione di invitare i fratelli in Europa a raccogliere denaro per i combattenti in Kurdistan; una videocassetta dalla quale risultava che Mohammed Tahir Hammid si era recato nel settembre 1999 anche in un campo di addestramento di Kurmal.
In data 2.10.2003, nel corso della perquisizione in Padova dell'abitazione di Bentiwaa Farida, erano stati sequestrati 200.000,00 euro; un permesso di soggiorno (falso) intestato a Bouyaia Maher e altri documenti falsi, apparentemente rilasciati al cittadino tunisino Mokrani Hakim.
Dopo aver inquadrato la posizione degli attuali imputati, il Pubblico Ministero - sempre nella premessa dei motivi d'appello - ha redatto una scheda per ciascuno, nella quale ha riassunto gli elementi raccolti a carico.
Bouyaia Maher Ben Abdelaziz
Secondo l'accusa, aveva funto da raccordo in Turchia con i membri dell a cellula milanese di Mera'j. Aveva lasciato l'Italia nel settembre 2002 e, in Medio Oriente, aveva raggiunto anche il campo di addestramento di Ansar Al Islam a Kurmal. Si era poi recato a Istambul, al fine di aiutare nuovi volontari nel viaggio di trasferimento verso il campo di addestramento di Kurmal. In particolare, il gruppo milanese aveva mandato a Maher denaro, cellulari e documenti falsificati, mentre Maher trasmetteva, anche via internet, le fotografie dei militanti che dovevano trasferirsi nel campo di addestramento.
A Milano, Maher aveva abitato insieme al fratello Hammadi in Corso XXII Marzo n. 39 a Milano, abitazione che era stata perquisita il 12.7. e il 9.10. 2002.
Nel corso della prima perquisizione era stato sequestrato il manuale "Elementi di base per la preparazione della Jihad per la causa di Allah"; un documento francese falsificato a favore del fratello Hammadi; numerose foto tessere, tra le quali quell a di F'radi il Libico; materiale propagandistico ed euro 8.625,00.
Nell'estate 2003, Maher aveva chiesto a Bentiwaa di procurargli documenti falsi; era poi giunto in Italia, dalla Grecia, l'11.8.2003; si era trattenuto qualche giorno a Padova, presso Bentiwaa; si era spostato a Bologna, dove era stato controllato l'1.10.2003, mentre si trovava insieme al tunisino Baccouche Abdelbaki; poiché entrambi erano privi di permesso di soggiorno, venivano accompagnati in un Centro di Prima Accoglienza, in attesa di essere espulsi dall'Italia; il 28 11.2003 era stato arrestato nell'ambito del presente procedimento, mentre si trovava nel centro di prima accoglienza di Via Corelli a Milano.
In data 2.10.2003 (subito dopo il controllo di Maher a Bologna) era stata perquisita l'abitazione di Bentiwaa, dove erano stati sequestrati la somma di 200.000,00 euro; un permesso di soggiorno rilasciato a nome di Mokrani Hakim, risultato completamente f also; una carta d'identità del comune di Caserta intestata a Mokrani Hakim, risultata completamente falsa; la fotocopia di pagine di un passaporto tunisino, intestato a Ben Tiwa Nejme Eddine Ben Bechir, fratello di Bentiwaa Farida, effiggiante la stessa persona dei documenti falsi intestati a Mokrani Hakim.
Il Pubblico Ministero ha indicato tutte le telefonate tra Mera'j e Maher (o altre persone in Turchia) dalle quali emergeva il ruolo sopra indicato dello stesso Maher, mettendo in evidenza che nelle conversazioni veniva utilizzata una terminologia criptica ed era manifestato il timore di essere intercettati.
In particolare, venivano riportate numerose conversazioni dei predetti tra il 2 febbraio 2003 e il 13 ottobre 2003 nelle quali emergevano anche i ruoli nell'organizzazione di Housni Jamal, Bentiwaa Farida e Toumi Ali Ben Sassi.
In data 2.5.2002, Maher aveva accompagnato suo fratello Hammadi, quando questi aveva trasmesso 775,00 euro a F'radi il Libico, nei confronti del quale il GIP del Tribunale di Milano ha successivamente (in data 17.5.2005) emesso ordinanza cautelare. Ma anche in alcune telefonate intercettate nel maggio 2002, Maher appariva coinvolto nell'invio di documenti al predetto F'radi, che all'epoca si trovava in Turchia.
Daki Mohamed
Il ruolo del marocchino Daki nell'organizzazione era stato scoperto con l'arrivo in Italia, in data 24 marzo 2003, del somalo Ciise Maxamed Cabdullaah, persona di rango, il quale aveva bisogno di un passaporto per recarsi in Medio Oriente.
Nella scheda è stato ricostruito, attraverso tutte le telefonate intercettate, il suddetto episodio, nel quale avevano avuto un ruolo, oltre ai predetti, anche Mera'j, Mullah Fouad e l'algerino Abderrazak Mahdjoub, residente ad Amburgo ma, all'epoca dell'episodio, in Siria a Damasco.
Il P ubblico Ministero ha messo in evidenza che le preoccupazioni di Daki nel corso delle telefonate e le raccomandazioni che gli venivano impartite erano sintomatiche di un contesto associativo e dimostravano che il predetto non era rimasto solo occasionalmente coinvolto nella vicenda.
In data 31.3.2003 era stata perquisita l'abitazione di Daki a Reggio Emilia ed erano stati sequestrati: un biglietto da visita della Federazione Islamica di Amburgo; una carta di credito rilasciata a suo nome ad Amburgo, valida fino al 2004; una tessera della previdenza sociale tedesca, rilasciata a suo nome ad Amburgo.
Nella memoria del cellulare di Daki venivano rinvenute due utenze tedesche (Fadli e Reda) trovate anche nella disponibilità di Ciise.
Il BKA tedesco, sul conto di Daki, aveva fornito le seguenti informazioni: il nome di Daki era emerso nel contesto investigativo, dopo gli attentati dell'11.9.2001, poiché era risu ltato aver avuto rapporti con Ramzi Binalshibh, leader operativo di Al Qaeda (arrestato in Pakistan e consegnato agli Stati Uniti); in particolare, Ramzi era risultato residente - dal 3.12.1997 al 5.11.1998 - nell'abitazione di Daki ad Amburgo; questi, interrogato dalla Polizia tedesca, aveva dichiarato di aver avuto rapporti molto sporadici con Ramzi e che aveva fornito allo stesso solo un recapito postale; alcuni numeri annotati nell'agenda sequestrata a Daki all'atto del suo arresto in Italia (il 4.4.2003) erano già emersi nel corso delle indagini per i noti fatti dell'11 settembre.
Daki, nell'interrogatorio del 7.4.2003, aveva ammesso che Abderrazak si trovava in Siria per combattere e che Ciise era intenzionato a raggiungerlo per combattere anche lui.
Nell'ottobre 2003, in sede di rogatoria richiesta dall'Autorità giudiziaria e davanti al P.M., Daki si era dichiarato assolutamente estraneo alla preparazione degli attentati d ell'11 settembre; aveva ammesso di aver frequentato moschee frequentate anche da islamisti radicali; di aver conosciuto Ramzi Omar Binalshib nelle circostanze sopra indicate; di aver conosciuto in moschea sia Said Bahaji che Mounir El Motassadeq; di aver conosciuto nella moschea di Amburgo anche l'algerino Abderrazak, che sapeva essere sposato con una tedesca, dalla quale aveva avuto una figlia; di aver saputo dallo stesso Ciise che aveva intenzione di andare a combattere, insieme ad Abderrazak, contro gli americani in Iraq.
Toumi Ali Ben Sassi
Toumi risulta essere entrato in Italia il 3.3.1994 e in possesso di permesso di soggiorno valido fino al 27.5.2007. Ha sposato una cittadina italiana dalla quale ha avuto due figli. All'epoca dei fatti era presidente della cooperativa di lavoro Isola di Lavoro, con sede a Milano in Via Jacopo del Verme n. 14, la quale risulta aver iniziato l'attività il 14.10.2002.
Nell'ambito dell'associazione, aveva avuto contatti con Maher, Bentiwaa e Mera'j e, dalle indagini, era risultato attivo nel procurare una fittizia attività lavorativa e documenti falsi a varie persone, anche al fine di regolarizzare la presenza di extracomunitari in Italia.
In occasione della perquisizione del 15 novembre 2003 nei confronti di Toumi, erano state sequestrate - oltre a numerose fotocopie di documenti, dichiarazioni e buste paga, sulle quali sono in corso indagini - anche due foto tessere raffiguranti il marocchino Morchidi Kamal, i cui documenti erano stati rinvenuti in un campo di addestramento di Ansar Al Islam a Kurmal, e una riguardante il tunisino Lagha Lofti Ben Suihi che, nel corso dell'inchiesta Al Muhajirum, era risultato essere una delle persone che si erano recate in campi di addestramento in Afghanistan.
Dalle conversazioni intercettate era emerso il ruolo del Toumi.
Nella scheda sono riportate le conversazioni che Toumi, dal 16.2.2003, ha avuto con Mera'j e Maher, riguardanti la consegna di documenti certamente falsi; un viaggio che Toumi aveva in programma di fare in Turchia per recapitare materiale; il riferimento ai documenti da falsificare con frasi cifrate, come il riferimento al numero della targa di una moto.
In una conversazione del 17 marzo (vigilia dell'intervento americano in Iraq) con Maher, Toumi, nel congedarsi da Maher, aveva detto: salutami i ragazzi, Dio li faccia vincere... Nella stessa conversazione, Maher aveva chiesto a Toumi uno o due computer.
Si è messo in evidenza anche il contatto telefonico (del 5.3.2003) con Cherif Foued - persona con precedenti penali e amico di Mera'j - il quale in più occasioni (dal 1997 al gennaio 2001) aveva denunciato lo smarrimento dei propri documenti d'identità.
Toumi si era interessato alle regolarizzazione in Italia di Bentiwaa Farida.
In una conversazione del 23.3.2003 con tale Habib, questi aveva parlato di un passaporto e aveva manifestato l'intenzione di partecipare alla Jihad; si era parlato anche del gruppo di Abu Magdi, i cui componenti erano stati arrestati dagli americani. In una successiva conversazione con Habib, Toumi aveva detto che bisognava essere meglio organizzati e che non era il caso di dire a nessuno, neppure in famiglia, che esso Habib andava a fare la Jihad in Iraq.
Infine, in una conversazione intercettata il 20.11.2003 mentre viaggiava in macchina con un certo Adel, Toumi si era riferito a Waddani Habib, persona già coinvolta nell'inchiesta Al Muhajirum, dicendo che era morto martire.
Nell'esporre i motivi d'appello avverso la menzionata sentenza, il Pubblico Ministero appellante ha in primo luogo osservato che il primo giudice non aveva negato l'esistenza di reciproci vincoli esistenti tra gli imputati e con altre persone separatamente giudicate, tali da configurare una vera e propria organizzazione che, anche mediante l'approntamento di documenti falsi, trasferiva numerose persone verso campi di addestramento e zone di guerra in Iraq, ma aveva solo negato - e comunque aveva ritenuto non provato - che detta organizzazione avesse il fine di compiere atti di terrorismo.
Il primo giudice, però, sarebbe partito, per sorreggere tale assunto, da un errato riferimento storico, e cioè che le attività poste in essere dalla cellula milanese risalirebbero al periodo immediatamente antecedente all'attacco statunitense all'Iraq, la cui invasione è avvenuta il 18 marzo 2003.
Le indagini nei confronti di Abu Omar (Nasr Osama Moustafa Hassan), iniziate nel marzo 2002, avevano invece consentito di scoprire i rapporti che il medesimo aveva intrattenuto con personaggi inquisiti nell'inchiesta Al Muhajirun, tra i quali Es Sayed Abdelkader Mahmoud, di tal che si era accertato che la cellula milanese di cui trattasi era già operativa alla fine del 1999 nel campo della falsificazione di documenti e di procurata immigrazione illegale in Italia e in altri Stati di varie persone.
Altro errore avrebbe compiuto il primo giudice nel ritenere inutilizzabili alcune fonti di prova utilizzate dal Pubblico Ministero, a sostegno della sua impostazione accusatoria.
L'Accusa, in primo luogo, nessun uso aveva fatto, per sostenere la propria tesi, delle c.d. fonti di intelligence e altre informazioni dello stesso tipo delle quali non era stato possibile controllare la provenienza e l'attendibilità. Dette notizie erano state, talvolta, citate al solo scopo di illustrare l'iter investigativo sul piano storico e logico.
Erroneamente, poi, il giudice aveva ricompreso nelle fonti di prova inutilizzabili atti che, invece, a pieno titolo potevano essere utilizzati nell'ambito di un giudizio abbreviato, quali le informative del B.K.A. tedesco (organo di polizia giudiziaria che aveva riferito sull'esito di indagini svolte in Germania), acquisite a seguito di formale rogatoria, e i dati provenienti dalle c.d. fonti aperte - ossia da informazioni giornalistiche o assunte per via telematica - come raccolti ed analizzati, sotto la loro responsabilità, dagli organi di Polizia Giudiziaria, potendo formare anche questi dati oggetto del libero convincimento del giudice.
Non potevano, inoltre, essere considerate affette da inutilizzabilità patologica audizioni compiute in Iraq dalla Polizia Giudiziaria norvegese di indagati in procedimenti connessi, senza le garanzie difensive, poiché la legge norvegese non prevede una figura simile all'indagato o all'imputato in procedimento connesso e - secondo l'appellante - non sarebbe contrario ai principi fondamentali dell'ordinamento ital iano l'audizione, senza l'assistenza del difensore, di persone interrogate esclusivamente sulla sussistenza del reato associativo, con la facoltà di non sottoporsi all'interrogatorio, tanto più che per detto reato queste persone mai potrebbero essere chiamate a rispondere in Italia.
Peraltro, tra gli atti acquisiti con la rogatoria in Norvegia del 15 dicembre 2003, vi erano anche il mandato di arresto emesso dal Procuratore di Oslo nei confronti di Mullah Krekar, considerato il leader di Ansar Al Islam, i rapporti della P.G. norvegese sulle indagini svolte e le deposizioni dei poliziotti iracheni Farman Kadir Mohammed e Nuri Qader Majid (che avevano proceduto all'arresto di kamikaze), tutti atti che inspiegabilmente il primo giudice, secondo il P.M., neppure avrebbe preso in considerazione.
L'appellante ha sostenuto che da numerosi elementi di prova, trascurati dal primo giudice, si doveva dedurre che l'associazione di cui tratt asi aveva nel suo programma il compimento di atti di terrorismo.
In particolare ha indicato:
-la conversazione intercettata il giorno 15.6.2002 dalle ore 22,15 nei locali della Comunità Islamica di Via Quaranta 54 a Milano, tra Abu Omar e un uomo non identificato che proveniva dalla Germania, dalla quale emergeva la nascita di una nuova struttura eversiva transnazionale, diretta da Al Tawid, avente lo scopo "di eliminare i nemici di Dio, la politica d'Israele e coloro che la seguono" (erroneamente il primo giudice aveva ritenuto che Abu Omar, comunque, non avrebbe fatto parte dei componenti della cellula milanese, poiché il predetto, invece, era indagato per partecipazione alla stessa associazione di cui al capo 1 dell'imputazione);
-Abu Omar era stato allontanato dalla Moschea di Milano per i suoi discorsi che incitavano alla violenza e per il fatto che aveva ospitato in Moschea personaggi pericolosi provenienti anche dall'estero;
-la conversazione intercettata il 7.4.2002 dalle ore 21,20 tra Abu Omar e Hammadi (fratello di Bouyaia Maher) all'interno della Moschea di Via Quaranta, dalla quale si evinceva il finanziamento dell'attività dei Mujaheddin, tramite le offerte degli inconsapevoli fedeli;
-la conversazione intercettata l'11.4.2002 dalle ore 17,06 all'interno della Moschea di Via Quaranta tra Abu Omar e Hammadi, dalla quale emergeva che Abu Omar era implicato nel procacciamento di documenti da falsificare; che Hammadi si occupava dell'invio di denaro a persone detenute e inquisite nell'inchiesta Al Muhajirun; che Abu Saleh (Es Sayed Abdelkader Mahmoud) probabilmente era morto come martire; che Hammadi considerava una bella notizia l'attentato compiuto da un kamikaze quello stesso giorno in Tunisia (dinanzi alla Sinagoga El Ghirba, nel quale avevano perso la vita diciannove persone, tra le quali quattordici turist i tedeschi);
-la conversazione intercettata il 24 aprile 2002 dalle ore 13,50 all'interno degli uffici della Comunità Islamica di Via Quaranta tra Abu Omar e un uomo egiziano non identificato, nella quale quest'ultimo aveva illustrato ad Abu Omar la necessità di compiere attentati contro interessI israeliani in tutto il mondo e questi gli aveva risposto che ogni attentato aveva la sua regola e che c'erano delle novità da Londra;
-la conversazione intercettata il 6 giugno 2002 dalle ore 12,32 all'interno degli uffici della Comunità Islamica di Via Quaranta tra Abu Omar e un nordafricano proveniente da Roma, dalla quale emergeva l'interesse per il compimento di attentati terroristici contro la popolazione civile;
-i documenti sequestrati nell'abitazione di Abu Omar in Milano Via Conte Verde 18 il 27.2.2003 (dopo il sequestro dello stesso Abu Omar, avvenuto in Milano il 17.2.2003) e il contenuto del com puter in uso al predetto, tra i quali materiale di propaganda islamica radicale, di incitamento e giustificazione della jihad, inviti ai musulmani a raggiungere i gruppi di combattenti, attestati di sostegno ai fratelli ingiustamente detenuti in Italia.
Il primo giudice, nel considerare la posizione dagli imputati nel presente processo, avrebbe anche sottovalutato i rapporti che gli stessi avevano intrattenuto con Mera'j (El Ayashi Abd El Samie), personaggio centrale nell'inchiesta nei confronti dell'associazione di cui trattasi, poiché era risultato che lo stesso svolgeva un ruolo di vertice nell'ambito dell'associazione.
In particolare, non aveva dato il corretto significato alla conversazione telefonica del 30.3.2003 ore 17,57 tra il predetto Mera'j e Mullah Fouad (Muhamad Majid), il quale si trovava in campi di addestramento in Kurdistan, in quanto l'invito del Mullah Fouad a cercare "quelli che stavano a Jaban" doveva es sere inteso come invito a cercare persone disposte a sacrificare la vita in azioni suicide, e non semplicemente persone non paurose.
Era stata sottovalutata anche la conversazione tra Mera'j e il somalo Ciise Maxamed Cabdullaah, intercettata nei locali della Questura di Milano il 1 aprile 2003, il giorno in cui i due erano stati arrestati, poiché dalla stessa - secondo l'appellante - emergeva anche la volontà di compiere attentati contro gli interessi italiani per il ruolo di asserita subalternità del nostro Paese agli interessi americani.
Il Pubblico Ministero ha denunciato alcuni vizi nel ragionamento del giudicante che avrebbero influito sulla decisione di assolvere gli imputati dal delitto associativo.
*Il sodalizio incriminato non poteva essere considerato la sola cellula milanese, ma tutta l'organizzazione transnazionale in cui la stessa era organicamente inserita.
*L'inv io di volontari e di somme di denaro nelle zone mediorientali investite dall'attacco americano doveva essere considerato rilevante ai fini della sussistenza del reato associativo, una volta provato che l'associazione nel suo complesso aveva in programma azioni terroristiche.
*Era arbitrario ritenere che Mohammed Thair Hammid - reo confesso circa la propria appartenenza ad Ansar Al Islam - affermando che nei campi di tale organizzazione i combattenti si addestravano al compimento di azioni terroristiche si fosse solo riferito al compimento di azioni violente in un contesto bellico.
*Il ruolo di Bouyhaia Maher nell'invio di denaro a Frad'j il Libico tramite la Western Union era stato ingiustificatamente svalutato dal giudicante, per il solo fatto che l'imputato era rimasto fuori della sede della Western Union ad aspettare il fratello Hammadi, senza considerare gli accertati rapporti tra l'imputato e Frad'j il Libico.
*Non era stato dato rilievo alle notevoli somme di denaro sequestrate presso Bentiwa Farida (200.000 euro) e nella abitazione di Bouyhaia Maher (8.500 euro) nonché all'altro materiale sequestrato presso la stessa abitazione, per inquadrare la posizione del predetto.
*Non era stato dato rilievo alle conversazioni telefoniche intercettate nelle quali Toumi Ben Ali Sassi aveva inneggiato alla vittoria sugli infedeli.
*Il collaboratore Zouaui Chokri, davanti al GIP di Brescia, aveva dichiarato che componenti della cellula di Cremona stavano elaborando progetti di attentati al Duomo di Cremona e/o alla Metropolitana milanese. Il primo giudice non aveva tenuto conto delle suddette dichiarazioni, sul (falso) presupposto che tali dichiarazioni riguarderebbero solo l'autonoma cellula di Cremona (diretta da Trabelsi Mourad), non prendendo però in considerazione gli intensi rapporti tra il gruppo operante a Cremona e que llo operante a Milano.
*Ansar Al Islam non era un'organizzazione diversa da quella indicata nel capo 1 della rubrica, ma l'associazione in contestazione non si identificava unicamente con Ansar Al Islam, poiché raccoglieva più persone e più gruppi che, pur senza avere una precisa denominazione o una rigida strutturazione, erano caratterizzati da un unico programma terroristico ed agivano secondo una strategia unitaria.
Non si poteva dubitare che Ansar Al Islam era un'organizzazione terroristica a tutti gli effetti, avuto riguardo al materiale documentale sequestrato al Mullah Krekar il 12.9.2002 dalla Polizia Olandese, tra cui l'annotazione nell'agenda di un numero telefonico del noto terrorista Abu Mussab Al Zarkawi; al materiale documentale sequestrato il 31.3.2003 nell'appartamento di Parma, Via della Martinella 132, dove abitavano Mohammed Tahir Hammid e Mohammed Amin Mostafà e dove aveva dimorato anche il Mullah Fouad; all a conversazione telefonica del 18.3.2003 ore 18,02 tra Trabelsi e Drissi Nourredine, nella quale quest'ultimo diceva di trovarsi in un campo di Ansar Al Islam in Kurdistan; agli esiti della rogatoria in Norvegia, e in particolare agli interrogatori di ex appartenenti ad Ansar Al Islam; alle dichiarazioni confessorie rese da Mohammed Tahir Hammid.
Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, l'associazione di cui, secondo l'accusa, facevano parte gli imputati era risultata dedita alla consumazione ed alla progettazione, in zone di combattimento ma anche in Europa, di attentati politicamente e ideologicamente motivati, finalizzati ad incutere timore nella popolazione civile.
Non possono comunque rientrare, secondo l'appellante, nelle azioni di guerra o di guerriglia quelle che pongono a rischio l'incolumità della popolazione inerme, dovendosi anche considerare che la distinzione tra terrorismo e guerriglia, pur avendo certamente un forte rilievo storico, era ancora molto discussa nel diritto internazionale e difficilmente poteva essere utilizzata sul piano giuridico nel diritto interno. In ogni caso, la situazione irachena si era andata sempre più evolvendo nel senso del puro terrorismo o di una "guerriglia" che utilizzava sistematicamente metodi terroristici: bombe nei mercati, sequestri ed uccisioni di ostaggi, attacchi alle sedi ONU e diplomatiche nonché contro luoghi di culto di minoranze religiose.
Le stabili attività poste in essere dall'associazione operante a Milano - e in particolare lo scambio di materiale di propaganda finalizzato al reclutamento, l'invio di somme di denaro e di cellulari a componenti dell'associazione, lo spostamento di militanti verso campi di addestramento e la produzione di documenti falsi - hanno costituito, secondo l'appellante, le condizioni necessarie senza le quali non si sarebbe potuta mettere in moto la catena che porta all'attentato terroristico.
Il Pubblico Ministero, oltre a criticare la distinzione introdotta dal primo giudice tra terrorismo e guerriglia, ha contestato che l'uso dei kamikaze potesse avere una finalità non terroristica, perché le azioni suicide, per loro natura, non sarebbero azioni militari e non potrebbero essere dirette unicamente contro obiettivi militari; perché avrebbero avuto, nei contesti di cui ci si occupa, anche la finalità di fungere di monito nei confronti della popolazione civile, per impedirle di collaborare con "gli infedeli"; perché erano state commesse anche all'interno di Stati non coinvolti nell'occupazione militare.
Ha poi messo in rilievo che, seppure gli imputati avessero avuto anche il fine di liberare i territori invasi, questa finalità non era incompatibile con la finalità di terrorismo che caratterizzava l'associazione di cui facevano parte, e comunque la suddetta finalità di resistenza a dife sa di territori occupati da forze militari di altri paesi non potrebbe agire come una sorta di scriminante del delitto de quo, tanto più che il programma dell'associazione era diretto non solo contro forze militari occupanti, ma anche contro l'intero sistema di vita e cultura degli Stati occidentali e contro quegli Stati arabi i cui governi erano accusati di non conformarsi ai principi della religione islamica.
L'appellante ha indicato un utile riferimento interpretativo, per definire la finalità di terrorismo, nella Decisione Quadro del Consiglio dell'Unione Europea del 13 giugno 2002, la quale ha definito come terroristici i reati commessi al fine di intimidire gravemente la popolazione, costringere i pubblici poteri a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare le strutture politiche fondamentali, costituzionali economiche o sociali di un Paese o di una organizzazione internazionale, elencando, tra le condotte contrassegnate da finalità terroristiche, gli attentati alla vita, la cattura di ostaggi, le distruzioni di infrastrutture, il sequestro di aeromobili o navi, la fabbricazione o il trasporto di armi, la diffusione di sostanze pericolose o il cagionamento di incendi o esplosioni i cui effetti possono mettere in pericolo vite umane. Devono poi essere considerati terroristici, oltre i furti aggravati e le estorsioni finalizzati al compimento di azioni terroristiche, anche la formazione di documenti amministrativi falsi al fine di agevolare i movimenti di coloro che dirigono o partecipano all'organizzazione terroristica.
Dai documenti sequestrati e dalle conversazioni intercettate emergeva che il fine che caratterizzava anche l'attività degli imputati del presente processo era la Jihad, intesa come "Guerra Santa" o azione militare religiosamente giustificata al fine di creare un ambiente universale islamico. Per realizzare tale fine, le popolazioni, i pubblici poteri e l e basi ideologiche, politiche ed anche morali e culturali del campo avversario dovevano essere colpiti e tale campo é estesissimo, comprendendo il mondo occidentale nel suo complesso, il mondo ebraico e i regimi corrotti e infedeli insediatisi in quasi tutti i Paesi arabi.
Dalla conversazione del 15.6.2002, intercettata nella Moschea di Via Quaranta tra Abu Omar e un cittadino nordafricano proveniente dalla Germania, emergeva che il fine dell'associazione non era certo quello di inviare combattenti in Iraq, essendo peraltro detta conversazione di molto precedente all'intervento nel suddetto Paese che neppure era stato nominato.
E ancor prima, nella conversazione tra lo stesso Abu Omar e un egiziano intercettata il 24.4.2002, il predetto si riferiva genericamente a un programma di attentati, quando affermava che "ogni attentato ha la sua regola", e l'egiziano faceva un esplicito riferimento a un attentato che si poteva compiere in Francia.
L'appellante, in via subordinata, si è lamentato del mancato riconoscimento, pur nell'ottica del giudicante che ha ritenuto non provata la finalità di terrorismo, della responsabilità degli imputati per il delitto di cui all'art. 416 C.P., avendo riconosciuto lo stesso giudicante che l'attività organizzata posta in essere dagli imputati, risultati inseriti nella rete fondamentalista islamica, era finalizzata alla consumazione di reati comuni quali la falsificazione e la ricettazione di documenti, il favoreggiamento di immigrazioni ed emigrazioni clandestine.
Il Pubblico Ministero appellante ha quindi concluso chiedendo che gli imputati Bouyahia Maher Ben Abdelaziz, Toumi Alì Ben Sassi e Daki Mohamed fossero ritenuti responsabili del delitto di cui all'art. 270bis C.P. (capo 1) e che fosse ritenuta sussistente la circostanza aggravante di cui all'art. 1 legge 15/1980 contestata ai capi 2 e 3 della rubrica.
In via subordinata, ha chiesto che gli imputati fossero dichiarati responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla ricettazione di documenti di identità di provenienza delittuosa, alla falsificazione dei medesimi e al favoreggiamento di immigrazione ed emigrazione clandestina, così diversamente qualificato il reato di cui al capo 1 della rubrica.
Ha infine chiesto che, in ogni caso, fosse congruamente aumentata la pena inflitta agli imputati.
MOTIVI D'APPELLO DI BOUYAHIA MAHER BEN ABDELAZIZ
Il difensore ha chiesto, in principalità, l'assoluzione dell'imputato sia per il delitto di cui al capo 3 (aver favorito il passaggio di volontari, muniti di documenti contraffatti, verso l'Iraq) sia per il delitto di cui al capo 2 (ricettazione di documenti d'identità falsi, provenienti dal delitto di cui agli artt. 477-482 C.P.).
S ostiene l'appellante che, per quanto riguarda il delitto di cui al capo 3, al di là dell'assoluta vaghezza e genericità dell'imputazione, da nessun atto, documento o attività d'indagine emergerebbe la responsabilità penale dell'imputato per un reato che, peraltro, dovrebbe essere riferito ai soli Stati membri della Comunità Europea.
L'imputato, inoltre, non avrebbe ricettato alcun documento falso e l'unico documento di cui era stato trovato in possesso sarebbe il permesso di soggiorno falso a lui intestato e grossolanamente falsificato.
In subordine, l'appellante ha chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche, essendo l'imputato incensurato, e una riduzione al minimo della pena, con la sospensione condizionale della medesima.
MOTIVI D'APPELLO DI TOUMI ALI BEN SASSI
La difesa ha chiesto l'assoluzione dell'imputato dai delitti di cui ai capi 2 e 3 perché il fatto non sussiste, in quanto sarebbe carente la prova, basata soprattutto su intercettazioni telefoniche, nelle quali ad espressioni ambigue, come "la targa della moto", sarebbe stato dato il significato di documento contraffatto.
L'imputato aveva ammesso di essersi occupato delle procedure relative a richieste di regolarizzazione di cittadini extracomunitari nel territorio italiano, e questa attività risultava confermata dal materiale sequestrato allo stesso imputato.
In subordine, l'appellante ha chiesto la concessione delle attenuanti generiche e la riduzione della pena al minimo edittale, tenendo conto, nel caso in cui si ritenesse che avesse agito per una motivazione politica, di questo speciale movente.

MOTIVI D'APPELLO DI DAKI MOHAMED
La difesa ha chiesto l'assoluzione dell'imputato, con la formula pe r non aver commesso il fatto, dall'accusa di aver ricettato documenti d'identità falsi.
Il fatto contestato non poteva riguardare la consegna, peraltro non avvenuta, al somalo Ciise Maxamed Cabdullah del documento d'identità dello stesso imputato, poiché questo fatto comunque non integra gli estremi del delitto di ricettazione.
L'accusa si reggerebbe, secondo l'appellante, solo sull'affermazione di Abderrazak - colta in una conversazione intercettata tra lo stesso e il predetto somalo - che l'imputato sarebbe uno specialista nella falsificazione dei documenti. In assenza, però, di una qualsiasi prova che l'imputato abbia ricevuto od occultato documenti d'identità falsi, l'imputato doveva essere assolto dal delitto di cui al capo 2 dell'imputazione.
Con memoria in data 23 giugno 2005 (impropriamente qualificata appello incidentale, poiché l'imputato non può proporre appello, per mancanza di interesse, avv erso un capo della sentenza dal quale è stato pienamente assolto) il difensore di Daki Mohamed, dopo aver riassunto le emergenze riguardanti l'imputato e i motivi d'appello del P.M., ha messo in rilievo che Daki è comparso nell'inchiesta solo per l'episodio riguardante il somalo Ciise; che neppure conosceva quest'ultimo né i componenti della c.d. cellula operante a Milano; che il P.M. non aveva considerato che gli americani erano intervenuti, oltre un anno prima dell'invasione dell'Iraq, anche in Afghanistan e che da decenni il mondo arabo lotta contro l'occupazione della Palestina; che non si poteva dare alcun rilievo probatorio alle informazioni desunte da siti internet, per la dubbia origine di notizie che chiunque avrebbe potuto immettere nella rete; che non potrebbero essere considerati utilizzabili le dichiarazioni rese alla Polizia norvegese da ex combattenti di Ansar al Islam o da poliziotti curdi; che le conversazioni intercettate, citate dal P.M. a sostegno della finalità terroristica della presunta associazione, non si erano svolte tra gli imputati del presente processo e comunque non avevano avuto ad oggetto il progetto di attentati contro la popolazione civile; che Mera'j aveva ammesso, nell'interrogatorio in data 29.7.2004, di aver inviato in Siria solo due tunisini e un marocchino che volevano andare in Iraq a combattere gli americani; che il Mullah Krekar aveva spiegato che nei campi di addestramento gli uomini si preparavano per sostenere combattimenti al fronte; che le azioni suicide potevano essere dirette esclusivamente contro obiettivi militari, dovendosi tener conto dei rapporti di forza tra contendenti armati; ed ha quindi concluso chiedendo il rigetto dell'appello del Pubblico Ministero.
IL GIUDIZIO D'APPELLO
Il processo d'appello nei confronti di Bouyahia Maher (detenuto per questa causa), Toumi Alì (detenuto per questa causa) e Daki Mohamed (libero) è stato chiamato all'udienza del 14 novembre 2005, svoltasi in camera di consiglio alla presenza dei suddetti imputati.
Preliminarmente, i difensori di Bouyhaia e Toumi hanno eccepito che ad essi difensori non era stato notificato l'appello dei P.M. nei confronti degli imputati.
La Corte ha respinto l'eccezione con la seguente ordinanza:
Rilevato che l'appello del P.M. nei confronti dei predetti imputati riguarda principalmente la responsabilità per il delitto associativo (art. 270bis C.P.), capo della sentenza avverso la quale le suddette parti non avrebbero potuto proporre appello incidentale, per assoluta mancanza di interesse, essendo stati il Bouyahia e il Toumi assolti dal predetto reato con la formula perché il fatto non sussiste;
Considerato che, sulla richiesta del P.M. nell'atto di appello di aumentare la pena inflitta dal primo giudice, i difensori d entrambi i sudde tti imputati, nell'atto di appello, hanno già impugnato sotto ogni profilo detto capo della sentenza, in quanto non solo, in via principale, hanno chiesto l'assoluzione per i delitti di cui ai capi 2 e 3, ma, hanno già chiesto, in via subordinata, sia le attenuanti generiche che la riduzione della pena al minimo;
Ritenuto che la sede nella quale i suddetti difensori potranno contrastare tutte le richieste del Pubblico Ministero è il processo d'appello;
Considerato, quindi, che ai suddetti difensori non doveva essere notificato l'appello del Pubblico Ministero e che comunque gli stessi non hanno subìto alcuna menomazione nel diritto di difesa per la mancata notifica di detto appello;
P.Q.M.
Respinge l'eccezione della difesa di Bouyahia Maher e di Toumi Alì.
Le parti hanno chiesto l'acquisizione delle sentenze 9.5.2005 della Corte d'Assise di Milano (processo contro Bouyahia Hamadi e altri) e 13 luglio 2005 del GUP del Tribunale di Brescia (processo contro Rafik Mohamed e altri); nonostante le dette sentenze non siano ancora passate in giudicato, la Corte ne ha ammesso la produzione per il solo uso giurisprudenziale delle questioni di diritto trattate nelle stesse sentenze.
Prima dell'inizio della discussione, gli imputati Toumi e Daki hanno inteso rilasciare le seguenti dichiarazioni:
Toumi: sono in Italia dal 1994; mi comporto da cittadino normale; sono sposato con una donna italiana cattolica; non sono né un terrorista né un integralista; non ho formato documenti falsi, ma mi sono limitato a rilasciare fittizie dichiarazioni di lavoro utilizzate da altri per richiedere il permesso di soggiorno in Italia; è stato solo questo il mio errore e lo sto pagando.
Daki: nessuno ha saputo spiegarmi per ché sono stato incriminato; anni fa mi sono recato in Germania per frequentare l'università, ma non sono riuscito a completare gli studi di ingegneria; sono venuto in Italia nel 2002 con mia moglie e mio figlio, con l'intenzione di tornare poi in Germania per completare i miei studi; ho ospitato un somalo per un paio di giorni; è venuta la polizia a perquisire la mia abitazione e non ha trovato niente di compromettente; non riesco a capire perché sono stato accusato di aver commesso reati.
Il Procuratore Generale, a conclusione della sua requisitoria, ha chiesto che, in accoglimento dell'appello del P.M., tutti e tre gli imputati fossero ritenuti responsabili anche del delitto di cui all'art. 270bis C.P., con conseguente condanna complessiva, per il delitto continuato, di
anni 10 di reclusione ed euro 18.000,00 di multa per Bouyahia Maher e Toumi Alì;
anni 6 di reclusione ed euro 8.000,00 di multa per Daki Mohamed;
ferme restando le richieste subordinate contenute nell'atto di appello.
Nell'udienza del 28 novembre 2005, i difensori degli imputati hanno concluso chiedendo che fosse respinto l'appello del P.M. e che fosse accolto l'appello della difesa.
Prima che la Corte si ritirasse in camera di consiglio, gli imputati Toumi e Daki hanno ancora ribadito di essere innocenti. Toumi ha aggiunto che, dal giugno all'agosto 2003, si era recato in Tunisia, dopo aver avvertito del suo viaggio personale della Questura di Milano; appena giunto in Tunisia, era stato incarcerato e torturato, poiché la polizia voleva sapere cosa faceva e quali contatti aveva in Italia (l'imputato ha sollevato la maglietta davanti alla Corte, mostrando sul torace i segni delle torture subite, asseritamente con un chiodo); ha chiesto, infine, di essere posto agli arresti domiciliari.
Nella stessa udienza l a Corte si è ritirata in camera di consiglio, al termine della quale il Presidente ha letto, alla presenza di tutte le parti, il dispositivo riportato in calce alla sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Prima di esaminare i fatti e le prove raccolte a carico degli imputati, è opportuno svolgere alcune considerazioni di ordine generale sia sull'associazione con finalità di terrorismo internazionale di cui trattasi, sia sul significato giuridico dell'espressione terrorismo, richiamando principi anche ovvi ma che debbono essere tenuti ben presenti per evitare di utilizzare in questo particolare genere di processi criteri di formazione e valutazione delle prove diversi da quelli normalmente utilizzati nella prassi giudiziaria in tutti gli altri processi.
Partendo da un concetto ovvio, un primo punto da fissare è che l'associazione con finalità di terrorismo internazionale di cui al presen te processo non può essere individuata in un'unica struttura sovrannazionale, nella quale confluirebbero i diversi gruppi, operanti nel mondo intero, che si ispirano al fondamentalismo islamico.
Non è, infatti, assolutamente ammissibile equiparare il fenomeno del fondamentalismo islamico al fenomeno del terrorismo di matrice islamica.
Per fondamentalismo o integralismo religioso si intende - in termini correnti, essendo detti termini del tutto privi di un significato giuridico - una rigida applicazione dei principi fondamentali di una determinata religione. Con riguardo alla religione islamica, il fondamentalismo è caratterizzato da vari gruppi e movimenti, tutt'altro che omogenei, che si richiamano all'Islam come prassi politica e rivendicano l'instaurazione di un governo della Shari'a (legge islamica basata sui precetti del Corano), rifiutando i valori espressi dalle democrazie occidentali.
L e diverse correnti del fondamentalismo islamico hanno dato in passato e danno anche oggi diverse interpretazioni della parola del profeta Maometto, e, a proposito del tema che ci occupa, è noto che molti esponenti del fondamentalismo islamico giudicano assolutamente inammissibile - proprio applicando rigidamente i precetti contenuti nel Corano - il sacrificio di persone innocenti, le quali per principio non possono mai essere strumentalizzate, anche se alcune correnti introducono complessi distinguo sulle categorie di persone che possono essere considerate innocenti.
Una non trascurabile parte del fondamentalismo islamico, quindi, non solo è estranea, ma addirittura condanna il ricorso al terrorismo, che - come vedremo tra poco - è caratterizzato dall'avere come obiettivo della sua azione proprio persone innocenti, con lo scopo di seminare terrore nella popolazione e raggiungere un determinato risultato politico.
Non è questa la sede per analizzare le ragioni per le quali alcune espressioni del fondamentalismo islamico abbiano, soprattutto in tempi recenti, ritenuto di poter perseguire i propri fini politico-religiosi con il ricorso al terrorismo, praticato sia contro l'Occidente sia contro la stessa popolazione musulmana.
Quel che occorre avere ben chiaro, anche per inquadrare correttamente i fatti di causa, è che non vi è alcuna corrività verso il terrorismo nei principi della religione islamica - e quindi non può essere guardata neppure con sospetto o diffidenza l'attività istituzionale delle Moschee o dei Centri di studio islamici - e che il fondamentalismo islamico non si può identificare tout court nel terrorismo di matrice islamica.
Ne consegue logicamente che un gruppo islamico genericamente fondamentalista, se impegnato nel perseguimento di una finalità politica, potrà essere definito terrorista non per l'integralismo della sua adesione a precetti religiosi, ma per avere tra le sue finalità uno specifico programma di preparazione e compimento di attentati di natura terroristica.
L'associazione di cui all'art. 270bis C.P. è caratterizzata da un gruppo - più o meno esteso e spesso in contatto con altri gruppi che perseguono lo stesso scopo - che si è dato una certa struttura organizzativa per realizzare una serie di attentati terroristici.
Nel caso dei gruppi terroristici di matrice islamica non bisogna confondere, per quanto sopra esposto, le strutture delle Moschee o dei Centri di studio islamici, finalizzate ovviamente alla pratica religiosa e agli studi, con le strutture di gruppi clandestini che - in specifiche situazioni tutte da provare - hanno abusivamente utilizzato i suddetti luoghi di culto e di studio per compiere varie attività di tipo criminale, che comprendevano, secondo una diffusa convinzione, anche fattivi appoggi al terrorismo internazionale .
Né si può ritenere, in forza di un preconcetto negativo verso tutto il mondo islamico, che l'adesione di un arabo musulmano a un qualsiasi movimento di lotta politica e militare comprenda anche la disponibilità a compiere attentati terroristici, ovvero che siffatta disponibilità sia sottesa in ogni gesto di solidarietà verso quelli che vengono definiti nella cultura musulmana "mujaeddin" (combattenti).
Altro delicato problema è il criterio con il quale si debbono definire i contorni di un'associazione, ovvero come distinguere una struttura associativa unitaria, anche se della stessa fanno parte più gruppi collegati, da più associazioni che operano in collegamento tra loro, mantenendo ciascuna una propria individualità e autonomia.
Alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di associazioni, deve ritenersi che si è in presenza di un'unica associazione, anche se formata da più gr uppi collegati, quando i diversi gruppi attuano direttive che sono impartite da un unico centro decisionale, al quale i singoli gruppi sono necessariamente sottoposti. Si è invece in presenza di più associazioni, seppur in vario modo collegate tra loro, quando ciascun gruppo non solo ha un'autonoma organizzazione, ma può decidere se e in quali termini collaborare con gli altri gruppi per la realizzazione di uno scopo comune.
Nel capo 1 dell'imputazione è delineata una struttura sovrannazionale, operante in Italia e all'estero sotto l'egida di varie sigle, della quale però sfugge l'unitarietà come sopra intesa, sia alla stregua delle stesse enunciazioni del capo di imputazione, sia alla stregua delle prove raccolte negli atti del processo.
Il tema non ha una sostanziale rilevanza pratica, poiché è evidente che gli imputati debbano rispondere - sulla base delle contestazioni contenute nel capo di imputazione - soltanto degli speci fici fatti da loro compiuti, in attuazione del programma da loro condiviso, e che non possano in alcun modo essere a loro attribuiti fatti ai quali non hanno partecipato o finalità che non è provato abbiano condiviso.
Deve quindi essere ben chiaro, in base alle considerazioni finora svolte, che gli imputati debbono essere giudicati soltanto per le attività delittuose alle quali abbiano materialmente partecipato e che per ciascuno di loro deve essere scrutata e provata la specifica finalità perseguita con il suo agire, non essendo lecito dare per scontato che tutti i musulmani in qualche modo vicini ad ambienti integralisti aderiscano al programma delittuoso indicato nel capo 1 dell'imputazione.
La precisazione appare opportuna, poiché la Pubblica Accusa sembra dare rilievo, nell'elencare il materiale probatorio a carico degli odierni imputati, anche a prove raccolte a carico di altri, i quali - per quanto risulta dagli atti di c ausa - non hanno avuto alcun contatto con le persone imputate nel presente processo e addirittura hanno agito in ambiti spaziali e temporali diversi. D'altra parte, non può certo stabilirsi un collegamento tra persone che non si sono neppure conosciute, solo sulla base dell'appartenenza alla medesima area religiosa o etnica ovvero ipotizzando rapporti e comunanza d'intenti in forza di una sorta di proprietà transitiva (Tizio ha avuto rapporti con Caio; Caio ha avuto rapporti con Sempronio; devono quindi esservi stati rapporti, e quanto meno comunanza d'intenti, anche tra Tizio e Sempronio), quando è ovvio che sia l'esistenza di rapporti sia la comunanza d'intenti devono essere ogni volta provate sulla base di elementi specifici, non esclusi peraltro anche quelli di natura indiziaria.
In altri termini, oggetto del presente processo non può essere l'attività asseritamente di appoggio al terrorismo internazionale che dal 1999 in poi sarebbe stata svolta in Mi lano e in altri centri, all'ombra delle Moschee, senza praticamente alcuna soluzione di continuità. Si deve, invece, accertare, pur prendendo atto del contesto, cosa esattamente abbiano fatto gli imputati e, sulla base degli specifici elementi di prova raccolti, quale fosse lo scopo che effettivamente intendevano perseguire, mediante gli atti da loro compiuti.
Altro argomento oggetto di trattazione preliminare è il concetto di terrorismo, concetto che non può essere assunto in termini generici o meramente letterali, comprendendo in esso - come sovente accade nel lessico comune e nelle cronache dei giornali - ogni impiego di violenza da parte di singoli o gruppi ispirati da motivazioni ideologiche. Nel linguaggio corrente, infatti, vengono definiti terroristici anche atti che giuridicamente tali non sono, come nel caso di uccisioni indiscriminate di più persone solo per odio razziale o per fanatismo religioso ovvero nel caso di at tentati contro obiettivi militari da parte di gruppi combattenti in contesti di conflitto armato o di situazioni ad esso equiparate dal diritto internazionale.
Un concetto così vago del terrorismo, tra l'altro, renderebbe palesemente incostituzionale la fattispecie dell'art. 270bis C.P., dovendo ogni norma penale avere un significato preciso e circoscritto (principio di determinatezza), nel rispetto del fondamentale principio di legalità.
Che cosa si debba intendere per terrorismo o per condotte commesse con finalità di terrorismo si ricava, però, in modo chiaro dal nostro ordinamento giuridico, e in particolare dalle norme che, anche ratificando e dando esecuzione a risoluzioni di organismi internazionali, hanno dato una definizione giuridica del predetto fenomeno.
Innanzi tutto, deve essere presa in considerazione la definizione di "condotte con finalità di terrorismo" contenuta nell'art. 270sexies C.P., che può essere utilizzata per l'interpretazione del significato giuridico del termine terrorismo, anche se introdotta nel nostro ordinamento in epoca successiva ai fatti di causa ( D.L. 27.7.2005 n. 144 convertito nella Legge 31.7.2005 n. 155), perché non ha alcun contenuto sanzionatorio ed anzi, precisando il concetto in questione, ne restringe l'ambito di applicazione.
L'art. 270 sexies C.P. recita : "Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia".
Tra le convenzioni internazionali che si sono occupate di terrorismo, riveste una particolare importanza la Convenzione Internazionale per la Repressione del Finanziamento del Terrorismo - adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9.12.1999 e resa esecutiva in Italia con L. 14.1.2003 n. 7 - perché contiene una definizione del fenomeno del terrorismo in tutti i suoi aspetti.
In detta Convenzione, dopo aver richiamato una serie di precedenti Convenzioni che si sono occupate di specifiche manifestazioni dell'attività terroristica, nell'art. 2 lett b, con una clausola di chiusura, si stabilisce che costituisce atto terroristico: "qualsiasi altro atto destinato a cagionare la morte o lesioni personali gravi ad un civile o a qualsiasi altra persona che non partecipi attivamente alle osti lità nel corso di un conflitto armato, quando lo scopo di tale atto, per sua natura o per il contesto, sia quello di intimorire la popolazione o costringere un governo o un'organizzazione internazionale a compiere o ad omettere un atto".
Una definizione generale di terrorismo, riferita però espressamente al tempo di pace, è contenuta anche nella Decisione Quadro del Consiglio dell'Unione Europea del 13 giugno 2002 sulla lotta contro il terrorismo, che all'art. 1 impone agli Stati membri di incriminare come reati terroristici "gli atti intenzionali di cui alle lettere da a) a i) definiti reati in base al diritto nazionale che, per loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a un'organizzazione internazionale, quando sono commessi al fine di
-intimidire gravemente la popolazione, o
-costringere indebitamente i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astener si dal compiere un qualsiasi atto, o
-destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o organizzazione internazionale"
Nella stessa Decisione Quadro, all'art. 2 si definisce l'organizzazione terroristica e all'art. 3 si considerano reati connessi alle attività terroristiche sia il furto aggravato e l'estorsione commessi per realizzare uno dei comportamenti elencati nell'art. 1, sia la formazione di documenti amministrativi falsi al fine di porre in essere i suddetti comportamenti.
E' utile un accenno, benché non contenga una definizione generale del fenomeno del terrorismo, anche al Diritto Internazionale Umanitario, e in particolare alle Quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 (la Quarta Convenzione si occupa della protezione dei civili in tempo di guerra), rese esecutive in Italia con L. 27.10.1951 n. 1739, e ai Due Protocolli aggiuntivi dell'8.6.1977, resi esecutivi con L. 11.12.1985 n. 762, poiché dal complesso di dette norme si ricava la definizione di un conflitto armato; l'equiparazione dell'occupazione militare da parte di un Paese straniero al conflitto armato; l'obbligo per i combattenti, anche se non inquadrati in truppe regolari, di essere identificabili e di portare le armi ben in vista; il divieto di colpire intenzionalmente la popolazione civile e di dirigere attacchi militari verso obiettivi civili.
Dal complesso delle norme sopra indicate si devono, quindi, desumere le caratteristiche essenziali che un atto deve avere per essere giuridicamente definito terroristico.
La prima caratteristica è costituita dal fatto che trattasi di attività delittuosa (strage, omicidio, dirottamento di aeromobili, sequestro di ostaggi, attentati a installazioni e impianti e altri gravi delitti), capace di diffondere terrore nella popolazione e cagionare un grave danno a un Paese o un'organizzazione internazionale.
E' però evidente che anche le organizzazioni che curano aspetti preparatori o di supporto all'attività terroristica rientrano nelle associazioni con finalità di terrorismo, sempre che i componenti siano consapevoli della natura terroristica dell'attività alla quale prestano una collaborazione o danno un supporto.
La seconda essenziale caratteristica perché un atto possa essere definito terroristico è che l'azione deve essere diretta contro un obiettivo civile ovvero contro militari che non partecipano al conflitto armato.
Dalla citata convenzione di New York del 1999 si ricava chiaramente che un atto terroristico può essere compiuto anche nel corso di un conflitto armato o di una situazione ad esso equiparata, come l'occupazione militare ad opera di uno Stato straniero.
Si deve però distinguere, a prop osito del pericolo che deriva alla popolazione civile dall'azione terroristica, se questa azione è compiuta in tempo di pace o in tempo di guerra.
Un atto può essere definito terroristico, in tempo di pace, anche quando determina solo un pericolo indiretto per la popolazione civile. Ma è del tutto evidente che, in una situazione di conflitto armato, il pericolo indiretto per la popolazione civile ricorre con grande frequenza, in occasione dei bombardamenti e delle altre azioni di guerrra, e quindi, nella situazione di conflitto armato, possono essere definiti terroristici (se ne hanno tutte le indicate caratteristiche) solo gli atti esclusivamente diretti contro la popolazione civile.
Non può, quindi, condividersi la tesi dell'Accusa, laddove sostiene che, anche in una situazione di conflitto armato, le azioni suicide dei c.d. kamikaze contro obiettivi militari dovrebbero essere considerate terroristiche, perché queste azi oni costituirebbero sempre un pericolo per la popolazione civile.
E a sostegno di questa tesi il Pubblico Ministero ha sviluppato i seguenti argomenti (pag. 132 dei motivi d'appello):
a. le azioni dei c.d. kamikaze, per loro natura, non sarebbero azioni militari e non potrebbero essere dirette unicamente contro obiettivi militari;
b. dette azioni avrebbero sempre l'ulteriore finalità di fungere da monito nei confronti della popolazione civile, seminando terrore tra la stessa;
c. le azioni dei kamikaze sono state commesse non solo in territori oggetto di invasione militare, ma anche all'interno di territori di Stati nient'affatto coinvolti in quelle occupazioni.
La tesi del Pubblico Ministero non appare condivisibile.
In una situazione di conflitt o armato (ovvero di occupazione militare), infatti, le azioni suicide di cui trattasi possono essere compiute da combattenti e dirette esclusivamente contro obiettivi militari (un carroarmato, un convoglio militare ecc.), e, per quanto si è già osservato, non possono essere definite terroristiche per il fatto che potrebbero mettere in pericolo la popolazione civile, perché nella suddetta situazione ricorre, con frequenza, anche per le tipiche azioni di guerra (che all'evidenza non possono essere definite terroristiche) un pericolo per la popolazione civile.
Non si vede, poi, perché dette azioni - se rivolte contro obiettivi militari - fungerebbero da monito contro la popolazione civile, la quale è invece in gravi difficoltà, e spesso anche terrorizzata, a causa degli scontri in atto che di frequente arrecano gravissimi danni ai civili.
Le azioni in discorso, infine, se compiute al di fuori del contesto sopra indicato (conflitto arm ato o occupazione militare che ad esso è equiparato dal diritto internazionale), sono ovviamente azioni terroristiche, perché dirette contro obiettivi civili e non militari.
Vi è da aggiungere, però, che un'azione compiuta non rispettando le regole dei conflitti armati - tra le quali vi è anche quella di portare apertamente le armi, per godere dello status di legittimo combattente - può essere considerata, alle condizioni previste dalle norme internazionali, un crimine di guerra, ciononostante però non può essere qualificata terroristica, se di quest'attività non ha i connotati che la contraddistinguono.
La terza caratteristica che connota gli atti terroristici è la finalità dell'atto: sono terroristici solo gli atti compiuti, con una motivazione politica o ideologica (non per soli fini di lucro), al fine di costringere un governo o un'organizzazione internazionale a tenere un determinato comportamento o al fine di destabilizzare le strutture politiche fondamentali di un Paese. E assai di frequente il terrore diffuso nella popolazione provocato dall'atto terroristico è servito per dar forza alle richieste avanzate dai gruppi terroristici.
Le azioni contro obiettivi civili, anche solo minacciate da gruppi terroristici, sono state, infatti, di frequente utilizzate per ottenere la liberazione di prigionieri, un mutamento della politica di un governo, la cessazione di un'attività militare o l'allontanamento di truppe da un certo territorio.
I fatti di cui al presente processo si sono svolti, nella parte di maggiore rilievo, nei mesi di febbraio e marzo 2003, quando era in preparazione ed è iniziato l'intervento degli Stati Uniti in Iraq, di cui all'epoca era presidente e capo del governo, con poteri dittatoriali, Saddam Hussein.
Per meglio inquadrare i fatti di causa, è opportuno richiamare alcuni dati storici che in parte risulta no dagli atti e in parte sono fatti notori, e quindi sono assumibili senza bisogno di una specifica prova.
Dopo il gravissimo attacco terroristico, da parte di attentatori islamici, dell'11 settembre 2001, il governo degli Stati Uniti, presieduto da George Bush, ha ritenuto di dover contrastare il terrorismo non solo approntando migliori difese contro eventuali ulteriori attacchi contro gli Stati Uniti, ma anche prevenendo questi attacchi e usando la propria potenza militare sia contro le basi dei gruppi terroristici dislocate in vari Stati, sia contro gli Stati (c.d. canaglia) che in qualsiasi modo appoggiavano e sostenevano i gruppi terroristici.
Nell'ambito di questa politica, nel periodo immediatamente successivo all'11 settembre 2001, è stato attaccato militarmente il regime dei Talebani in Afghanistan, accusato di ospitare e proteggere Osama Bin Laden e le basi di Al Qaeda, e l'intervento americano ha consentito che, già nel d icembre 2001, si instaurasse a Kabul un governo non ostile agli Stati occidentali.
Dopo l'Afghanistan, il governo degli Stati Uniti ha subito indicato anche l'Iraq come altro Stato "canaglia" contro il quale era necessario intervenire per svariate ragioni: il pericolo che detto Stato rappresentava per la comunità internazionale, in quanto sarebbe stato in possesso o stava per produrre armi di distruzione di massa; la sistematica violazione dei diritti umani da parte della feroce dittatura di Saddam Hussein; il sostegno che detto Stato dava, anche con la sua politica, al terrorismo internazionale.
In data 11 ottobre 2002, il presidente Bush ha ottenuto dal Congresso l'autorizzazione all'uso della forza per difendere la sicurezza nazionale degli USA contro le continue minacce portate dall'Iraq.
L'offensiva di terra contro l'Iraq, da parte degli Stati Uniti che agivano con l'appoggio militare di altri Stati ( la c.d. Coalizione dei Volenterosi), è iniziata il 20 marzo 2003, e già il 5 aprile 2003 le forze militari americane sono entrate a Bagdad; pochi giorni dopo, il 7 aprile 2003, è caduto il regime di Saddam Hussein.
Le operazioni belliche in grande scala, per occupare e controllare il territorio iracheno, hanno quindi avuto una breve durata, tanto che il presidente Bush, già il 1° maggio 2003, ha proclamato la conclusione di dette operazioni.
E' seguìto, però, un lungo periodo di occupazione militare da parte delle forze armate americane e di altri Stati della Coalizione, contrassegnato da continui attacchi e attentati contro dette Forze ad opera di gruppi armati arabi di diversa formazione, molti dei quali, oltre a combattere "gli invasori", hanno anche compiuto azioni terroristiche sia contro tutti coloro - compresi gli stessi iracheni - che collaboravano o erano disposti a collaborare con gli Stati Uniti, sia contro la popolazion e civile di diversa etnia (la popolazione irachena è composta da sciiti, componente maggioritaria, e da sunniti e curdi) per assicurarsi una posizione di forza nei futuri assetti politici dell'Iraq.
Il periodo di occupazione militare (la Risoluzione n. 1483 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata in data 22 maggio 2003, ha qualificato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna come potenze occupanti, esplicitamente chiamate ad ottemperare agli obblighi derivanti dalle Convenzioni di Ginevra e dell'Aja) è stato considerato formalmente concluso il 30 giugno 2004, con l'instaurazione del Governo provvisorio iracheno di Ayad Allawi, anche se è a tutti noto che, seppure su esplicita richiesta di detto Governo, Forze Armate della Coalizione siano ancora presenti sul territorio iracheno per controllare la situazione.
Restringendo ora il campo ad aspetti che maggiormente interessano il presente processo, si devono mettere in eviden za le seguenti circostanze, anch'esse pacifiche in atti o a tutti note, dalle quali si possono trarre importanti elementi per delineare l'effettivo contesto nel quale deve essere inserita l'attività degli imputati.
Nel lungo periodo in cui gli Stati Uniti di fatto hanno preannunciato un intervento contro l'Iraq di Saddam Hussein, molti musulmani residenti negli Stati arabi, ma anche musulmani residenti in Europa, hanno ritenuto di dover accorrere in aiuto del suddetto Stato arabo, minacciato - dal loro punto di vista - dall'invasione americana. Questi musulmani, spesso dopo essere stati addestrati in specifici campi situati ai confini con l'Iraq, vi sono poi entrati per combattere in vario modo contro le Forze della Coalizione, talvolta unendosi ai gruppi rimasti fedeli a Saddam Hussein. La lotta da parte di iracheni e musulmani giunti in Iraq per combattere contro gli americani è proseguita, di frequente con vere e proprie azioni terroristiche, durante i l periodo dell'occupazione ed oltre, sia contro gli occupanti, sia contro tutti coloro che in qualsiasi modo collaboravano con le Forze della Coalizione o con il Governo provvisorio, sia infine contro parte della popolazione irachena di diversa etnia.
Si deve, peraltro, sottolineare - essendo la circostanza della massima importanza per valutare correttamente la posizione degli imputati - che durante tutto il periodo delle operazioni belliche vere e proprie (20 marzo - 1° maggio 2003) e fino all'inizio dell'agosto 2003 non si è verificato di fatto alcun attentato terroristico (nel senso sopra indicato) in Iraq, anche se fin dai primi giorni della guerra sono entrati in azione kamikaze contro obiettivi militari e le autorità irachene avevano diffidato gli americani dall'avvicinarsi a Bagdad, perché sarebbero stati pronti ad entrare in azione contro di loro quattromila kamikaze (si sono già esposte le ragioni per le quali le azioni di kamikaze contro obi ettivi militari, nel corso di un conflitto armato o di una occupazione militare da parte di uno Stato straniero, non possono essere qualificati atti terroristici).
Quindi non può affermarsi, proprio sulla base di quanto è concretamente avvenuto in Iraq fino all'inizio dell'agosto 2003, che l'attività di coloro che, prima dell'intervento degli Stati Uniti, hanno in vario modo aiutato musulmani a recarsi in Iraq (rectius in Siria, da dove poi era previsto il passaggio in Iraq durante il conflitto) fosse sicuramente e immediatamente diretto al compimento di attività terroristiche; attività che, invece, sono state organizzate ed eseguite successivamente alla sconfitta militare (invero facilmente prevedibile) dell'esercito iracheno e delle forze musulmane che erano accorse in suo aiuto, sia per opporsi agli occupanti e costringere gli Stati aderenti alla predetta Coalizione ad abbandonare il territorio iracheno, sia per conquistare il controllo del terri torio contro fazioni avverse, sia infine per delegittimare e costringere il governo provvisorio iracheno, accusato di eseguire gli ordini degli americani, ad abbandonare il campo e sciogliersi.
Passando ora all'esame specifico dei fatti di causa, si deve, innanzi tutto, considerare il ruolo svolto nella vicenda in esame da Mera'j (El Ayashi Radi Abd El Samie), anche se il predetto non è imputato nel presente processo, poiché gli imputati Bouyahia Maher, Toumi Alì e, seppure indirettamente, anche Daki Mohamed hanno avuto come principale referente delle attività che sono loro contestate proprio il predetto Mera'j, e quindi è di fondamentale importanza accertare che genere di rapporti avessero instaurato con lo stesso.
E' incontestabile - e da nessuno contestato - che Mera'j, nel periodo precedente all'intervento in Iraq delle Forze della Coalizione e fino alla data del suo arresto (1.4.2003), ha aiutato a rabi musulmani di diversa nazionalità a recarsi in Siria, dove operava il Mullah Fouad, per essere prima addestrati e poi avviati a combattere in Iraq contro gli americani.
Sul punto lo stesso Mera'j è addirittura confesso, anche se ha cercato di minimizzare (avuto riguardo alle prove raccolte, e in particolare al contenuto delle intercettazioni telefoniche) sul numero di persone che ha aiutato a spostarsi dall'Italia in Siria (ha parlato solo di un marocchino e di due tunisini che aveva aiutato a trasferirsi in Siria nei primi mesi del 2003) e sui mezzi utilizzati per favorire detti spostamenti (ha dichiarato di aver aiutato le suddette persone, soltanto mettendole in contatto con il Mullah Fouad, senza munirle di documenti falsi per raggiungere la Siria).
Richiamando quanto già riportato nella parte espositiva della presente sentenza sul contenuto degli interrogatori resi da Mera'j, è opportuno riportare in sintesi alcune dichiarazioni rese dallo stesso nell'interrogatorio davanti al P.M. di Milano in data 29.7.2004: ha dichiarato di essere in Italia dal 1998 e di non essere mai uscito dall'Italia per andare in altri Paesi d'Europa; nel 2000, quando aveva ottenuto il permesso di soggiorno, si era recato in Egitto; nel 2001 aveva soggiornato per otto mesi in Iran "per turismo religioso"; nel corso del 2002 aveva conosciuto, nella Moschea di Via Quaranta, i curdi Amin Mostafà e Tahir Hammid nonché, verso la fine del 2002, anche l'iracheno Mullah Fouad; quest'ultimo l'aveva incontrato solo un paio di volte; venuto a sapere dallo stesso che cercava persone disposte ad andare a combattere in Iraq contro gli americani che stavano per invadere detto paese, si era dichiarato disposto a collaborare con lui; nello stesso periodo in cui aveva conosciuto Mullah Fouad, aveva conosciuto anche Bouyahia Maher e Housni Jamal; aveva anche saputo che Maher conosceva Moullah Fouad; Toumi Alì l'aveva invece conos ciuto all'inizio del 2002 nel Centro Islamico di Viale Jenner ed era stato costui che l'aveva aiutato, procurandogli un contratto di lavoro (fittizio), ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno; era stato Maher (dalla Turchia) a chiedergli un computer per Mullah Fouad che stava in Siria; egli aveva aiutato il somalo Ciise - che gli era stato segnalato dal Mullah Fouad - a ricercare un passaporto marocchino (da falsificare) che sarebbe servito allo stesso Ciise per raggiungere i luoghi ove stavano combattendo in Iraq; aveva conosciuto solo di vista Abu Omar a Milano, mentre non aveva mai conosciuto Abderrazak Mahdjoub.
Nello stesso interrogatorio, Mera'j ha negato di aver fatto parte di organizzazioni terroristiche ed ha sostenuto che aveva sentito come un suo dovere partecipare alla Jihad, intesa come lotta contro l'invasore di un paese arabo, aiutando musulmani, intenzionati a combattere in Iraq, a raggiungere la Siria, dove Mullah Fouad, c on il quale esso Mera'j era in contatto, li avrebbe a sua volta aiutati ad andare a combattere contro gli americani.
Non spetta a questa Corte stabilire se Mera'j si sia limitato a compiere l'attività che ha ammesso di aver compiuto, ovvero abbia partecipato anche alla preparazione e organizzazione di attività di natura terroristica, cosa peraltro che non risulta in modo evidente da nessuna delle prove raccolte e versate nel presente processo.
Certo è che effettivamente ha compiuto l'attività da lui ammessa - vedremo tra poco quale ne fosse la consistenza reale, al di là della sua posizione difensiva - e, per quanto interessa in questo processo, bisogna accertare se, sulla base delle prove raccolte, gli imputati si siano limitati a collaborare a detta attività (che sicuramente, per le ragioni già esposte, non può essere definita terroristica) ovvero se siano stati coinvolti - con Mera'j o con altri - anche in attività preparatori e di atti terroristici.
Che effettivamente Mera'j abbia organizzato, avendo come suo principale referente il Mullah Fouad, una sorta di reclutamento di arabi musulmani, da inviare a combattere in Iraq contro gli americani, risulta in modo chiarissimo dalle conversazioni telefoniche intercettate tra Mera'j e il Mullah Fouad; dall'episodio relativo a Ciise Maxamed Cabdullaah, come compiutamente ricostruito sulla base di tutte le prove raccolte; dalla significativa conversazione tra Mera'j e il predetto Ciise, intercettata nei locali della Questura di Milano il 1° aprile 2003; dalle dichiarazioni rese da Mohammed Tahir Hammid.
Sono particolarmente significative, in proposito, le seguenti conversazioni telefoniche:
-in data 23 marzo 2003 alle ore 16,55 tra Mera'j e Mullah Fouad, nella quale Mera'j chiede "gli uomini che ti ho mandato sono partiti o sono ancora da te?"; venuto a conoscenza che non sono ancor a partiti, Mera'j specifica che "questa settimana te ne mando tre o quattro" e Mullah Fouad gli risponde "ne abbiamo bisogno fino a quaranta ma buoni come quelli di prima" (in questa stessa telefonata, Mullah Fouad ha avvertito Mera'j che sarebbe stato contattato dal somalo Ciise - che, come si vedrà, voleva anche lui andare in Iraq per combattere contro gli americani - e gli ha chiesto di mettersi a completa disposizione dello stesso);
-in data 30 marzo 2003 alle ore 17,57 tra Mera'j e Mullah Fouad; nella prima parte i due parlano del quaderno (passaporto) di "un fratello scuro" che il Mullah Fouad ha mandato da Mera'j, e questi precisa che "quando il suo quaderno sarà pronto, arriverà subito da voi... e verrò anch'io"; successivamente Mera'j avverte Mullah Fouad che "in questa settimana arrivano gli ospiti da te"; Mullah Fouad si augura che siano "svegli e preparati"; Mera'j gli dice che "è gente buona che ti vuole bene"; Mullah Fouad gli risponde che non c'è bisogno di buoni, ma di persone sveglie e disposte a qualsiasi tipo di azione ed anche a fare il kamikaze (quelli che stavano in Giappone); Meraj gli dice di averne uno "malato e stanco" e che tra le persone che gli manda vi sono "persone pronte.. ti troverai bene con loro"; Merai'j poi chiede "come va la gioventù" (riferendosi evidentemente alle persone che già gli ha mandato) e Mullah Fouad gli risponde "tutto procede alla perfezione, studiano bene e verranno tutti promossi, e vedrai i risultati";
-in data 30 marzo 2003 alle ore 20,41 tra Mera'j e Kamal (Hamraoui Kamel, che all'epoca viveva a Cremona); Kamal dice a Mera'j che in una riunione svoltasi a Cremona Abu Jarrah (Trabelsi Mourad) li ha informati "che ha parlato con quelli di là, che gli hanno detto di non avere bisogno di uomini lì (in Iraq, evidentemente). Hanno bisogno di uomini qui, in Europa, hai capito?"; Mera'j mostra di non capire e Kamal gli spiega che servono persone che in Europ a cerchino finanziamenti; Mera'j obietta che oggi ha parlato con il professore (Mullah Fouad), il quale gli aveva detto che c'era bisogno di uomini là e aggiunge che ha due persone pronte a partire e che queste due persone partiranno (per la Siria); Kamal dice di essere pronto anche lui a partire, ma di non poter contraddire Abu Jarrah.
Dalle suddette conversazioni, quindi, si ha una conferma che Mera'j fosse all'epoca impegnato nell'attività di reclutamento di persone disposte a combattere in Iraq, avuto riguardo anche all'epoca e al contesto in cui si sono svolte dette conversazioni. La ricerca di kamikaze, che appare chiara in una delle riportate conversazioni, non può essere assimilata alla preparazione di un'attività terroristica, perché è certo che nel corso degli scontri in Iraq in quel periodo i kamikaze sono stati impiegati (o si è minacciato di impiegarli) contro obiettivi militari .
Un'ulteriore ed emblematica conf erma del fatto che Mera'j fosse impegnato all'epoca nell'attività di aiutare "fratelli musulmani" ad andare a combattere in Iraq, fornendo loro documenti falsi per raggiungere la Siria, da dove poi avrebbero potuto raggiungere l'Iraq, è data dall'episodio che riguarda il somalo Ciise, episodio che si è potuto ricostruire in tutti i particolari, perché sono state intercettate le conversazioni telefoniche tra i protagonisti dell'episodio; gli stessi sono stati seguiti e controllati praticamente fin dal momento in cui Ciise è arrivato in Italia; vi è stata una sostanziale confessione di tutte le persone coinvolte, dopo il loro arresto.
Questo episodio sarà analiticamente esaminato, quando si dovrà prendere in esame la posizione di Daki Mohamed. Per ora è sufficiente mettere in evidenza i dati salienti della vicenda, emersi dalle prove raccolte: Ciise (che viveva all'epoca in Inghilterra) era intenzionato a raggiungere la Siria, dove si trovava già il suo amico Abderrazak Mahdjoub, per andare a combattere in Iraq insieme allo stesso; era alla ricerca di un passaporto marocchino da falsificare, perché con un passaporto di questa nazionalità si sarebbe potuto recare in Siria, senza procurarsi alcun visto; Abderrazak aveva individuato in Daki Mohamed (un marocchino da lui conosciuto in Germania e che sapeva essersi trasferito in Italia) la persona che avrebbe potuto aiutare Ciise nella ricerca di un passaporto marocchino, e quindi aveva detto a costui di mettersi in contatto con Daki; Ciise prima si era messo in contatto con Mera'j (il quale era stato avvertito dal Mullah Fouad, a sua volta sensibilizzato da Abderazzak, dell'arrivo a Milano di Ciise) e poi con Daki, andandolo a trovare a Reggio Emilia; Ciise aveva confidato a Daki la ragione per la quale cercava un passaporto marocchino, ma Daki si era dichiarato indisponibile a consegnargli il suo passaporto, né era stato in grado di procurargliene un altro; Mera'j, dopo aver saputo che Ciise non si era potuto procurare un passaporto marocchino tramite Daki, si era dato da fare a Milano per procurare a Ciise un passaporto della suddetta nazionalità; era riuscito a procurare un passaporto marocchino, ma, prima di consegnarglielo, erano stati arrestati (in data 1 aprile 2003) a Milano sia Mera'j che Ciise, poiché dalle intercettazioni telefoniche in corso era emerso che quest'ultimo stava per allontanarsi dall'Italia.
Da questo episodio emerge con tutta evidenza il tipo di attività che Mera'j stava svolgendo a Milano, in collegamento con il Mullah Fouad che operava in Siria: prestare aiuto, fornendoli di documenti falsi, a tutti i musulmani che volevano recarsi a combattere contro gli americani. Non risulta, infatti, dalle prove raccolte che Ciise, oltre ad andare a combattere in Iraq, avesse in preparazione o fosse anche solo intenzionato a compiere qualche atto terroristico.
Che l'attività di Mera'j in Mil ano non avesse ad oggetto la preparazione di una specifica attività terroristica, ma riguardasse, sostanzialmente, la lotta contro l'esercito americano e i suoi alleati, risulta anche dalla conversazione intercettata tra Mera'j e Ciise, nei locali della Questura di Milano, il giorno stesso del loro arresto. E' da sottolineare che i due hanno parlato a lungo tra loro e liberamente, senza evidentemente sospettare che le loro parole fossero registrate, e quindi quanto si sono detti è particolarmente significativo per capire quali fossero le loro intenzioni.
Nella prima parte della conversazione Mera'j spiega a Ciise in quali uffici si trovano (DIGOS) e dove sarebbero stati portati (al carcere di San Vittore, dove troveremo i migliori fratelli); Mera'j dice di sentirsi in colpa, perché Ciise è stato arrestato, ma questi dice "non ti sto dando la colpa, siamo combattenti"; i due concordano che versione avrebbero dovuto rendere in sede di interrogatorio; Ciise si meraviglia che i poliziotti gli avessero fatto domande (al momento dell'arresto) sui campi di addestramento in Siria; Mera'j lo consiglia di "prenderli in giro", mettendoli fuori strada, perché la Polizia non avrebbe avuto niente in mano contro di loro e aggiunge che, appena rilasciati, avrebbero fatto bene a sparire tutti e due; Ciise ha il sospetto che la Polizia e i servizi segreti tenessero sotto controllo i loro telefoni "se è così è un grosso problema perché gli altri mi stanno aspettando, Abderrazak, Abu Zaied, Abdelkarim..."; Mera'j lo tranquillizza, ripetendo che la Polizia non ha niente in mano, e ipotizza che probabilmente gli inquirenti hanno di mira il Mullah Fouad; poi Mera'j rivendica quello che sta facendo: "I nemici di Dio, figli di cane, domande stupide. Sei stato in Iran? Si, e allora?.... Loro quando ammazzano va bene, e noi se gli diciamo che stiamo andando in Iran o in Siria ci chiedono cosa ci andiamo a fare. Adesso hanno messo anche in mezzo l'Iraq, i cani degli americani e gli israeliani, che Dio li maledica, anche i loro alleati, compreso il governo italiano... Se mi chiedono se sono andato a combattere in Afghanistan gli dico di sì. E allora? C'è qualche problema? Loro sono armati e hanno paura di noi... Molto presto avranno una notizia, una bella cosa da vedere.... Nemici di Dio. Sicuramente ti chiederanno di gente che è stata in Afghanistan, loro vogliono il capo. Maledetti. A loro piace la vita. Io voglio essere un martire, io vivo per la Jihad... la vita è dopo... Dio, aiutami ad essere tuo martire"; dopo che i due hanno insultato ancora gli americani e i loro alleati, Ciise si mostra perplesso per il fatto che, dopo l'arresto, li hanno lasciti insieme, ma Mera'j lo tranquillizza, dicendogli che hanno fatto solo una retata; Ciise, alla fine della conversazione intercettata, si rammarica di non essere scappato, quando stava per essere arrestato.
Da questa conversazione emerge con chiarezza l'impe gno di Mera'j nell'area del fondamentalismo islamico. Si dichiara un combattente che vuole morire martire per la Jihad, evidentemente combattendo per l'Islam contro gli americani e i loro alleati. Mera'j rivendica anche il suo buon diritto a combattere per la causa araba contro gli americani e i loro alleati, e non può dedursi un coinvolgimento nella preparazione di azioni terroristiche, dal solo fatto che ha pronunciato un'oscura minaccia contro gli americani e i loro alleati (molto presto avranno una notizia, una bella cosa da vedere...) ovvero dal fatto che si è dichiarato combattente, con l'aspirazione di morire martire (che significa testimoniare la propria fede, morendo in battaglia, e non necessariamente compiendo un atto terroristico). Anche se è del tutto probabile che Mera'j non disapprovasse affatto le azioni terroristiche contro quelli che considerava i nemici di Dio, dai suoi discorsi non solo non emerge che fosse coinvolto in uno specifico programma di azioni terroristiche, ma anzi si evince la sua volontà di combattere contro gli americani, nei luoghi in cui gli stessi erano intervenuti con l'esercito.
Mohammed Tahir Hammid, negli interrogatori a cui è stato sottoposto, ha progressivamente collaborato con gli inquirenti, dando indicazioni sul gruppo di Ansar Al Islam, di cui aveva fatto parte, e su diverse persone con le quali aveva avuto contatti, tra i quali anche Mera'j e Mullah Fouad.
In particolare, nell'interrogatorio in data 29.10.2003, dopo aver dichiarato che a suo parere Ansar Al Islam non era un gruppo terroristico, anche se aveva sentito dire che i suoi capi avevano contatti con Al Qaeda, ha precisato che Mullah Fouad - che come lui faceva parte di Ansar Al Islam - era impegnato in Siria nel mandare volontari musulmani nei campi di addestramento; che anche Mera'j - il quale non faceva parte di Ansar Al Islam, ma si stava avvicinando a questo gruppo - era impegnato a "raccogliere soldi e mandare gente" per combattere in Iraq; che a questa attività avevano partecipato, oltre ad esso Tahir Hammid, anche Trabelsi Mourad e Drissi Nourredine. Nell'interrogatorio davanti al P.M. di Milano in data 5.3.2004, ha poi aggiunto che Ansar Al Islam aveva nel suo programma anche azioni di tipo terroristico, da compiersi all'interno dell'Iraq.
Accertato che Mera'j era attivamente impegnato, nell'epoca in cui ha avuto rapporti con gli imputati, nella descritta attività di reclutamento di musulmani per combattere contro gli americani che stavano per intervenire o erano appena intervenuti in Iraq, bisogna ora analizzare la posizione degli imputati e i rapporti che gli stessi hanno avuto con Mera'j, tenendo ben presente - alla stregua delle considerazioni svolte in premessa - che la partecipazione ad un'organizzazione con finalità di terrorismo deve essere provata per ogni imputato con elementi specifici, che non possono essere so ltanto l' adesione a principi del fondamentalismo islamico o il coinvolgimento nella suddetta attività svolta da Mera'j (in collegamento, tra gli altri, con Mullah Fouad in Siria, con Tahir Hammid e Amin Mostafà a Parma, con Trebelsi e Hamroui Kamel a Cremona), perché l'attività in discorso non può essere definita, sotto alcun profilo, di natura terroristica, per quanto già detto sugli elementi che caratterizzano l'attività terroristica.
Si deve inoltre sottolineare che, nello specifico, manca del tutto la prova che le persone che venivano inviate prima in campi di addestramento e poi in Iraq a combattere fossero coinvolte in una qualsivoglia attività di tipo terroristico.
Di assai scarsa consistenza sono, a giudizio di questa Corte, gli elementi di prova raccolti a carico di Daki Mohamed, a sostegno dell'accusa di partecipazione all'associazione con finalità di terrorismo internazionale di cui al capo 1 .
E' pacifico in atti che Daki Mohamed è stato coinvolto nei fatti di causa, in relazione all'episodio riguardante Ciise Maxamed Cabdullaah, già delineato nei punti salienti. E' opportuno, allora, riportare tutte le conversazioni telefoniche intercettate nelle quali si fa riferimento a Daki o alle quali lo stesso ha partecipato, ricordando che il predetto era venuto in Italia verso la metà del 2002, provenendo dalla Germania; che era andato a vivere subito a Reggio Emilia, dove aveva trovato lavoro in una cooperativa; che, all'epoca dei fatti, abitava in un appartamento (in Via Melato 11) che condivideva con altri extracomunitari.
Ciise è arrivato a Milano il 24 marzo 2003. Dopo essersi incontrato con Mera'j (che non conosceva), nella telefonata intercettata del 24.3.2003 h. 14,46 ha parlato con Abderrazak (che si trovava in Siria). Nella prima parte di questa telefonata Ciise esprime dubbi sul posto in cui è arrivato e sui fratelli che l'hanno ricevuto (appena arrivato a Milano, Ciise era stato controllato dalla Polizia); Abderrazak lo tranquillizza, dicendogli che Mera'j è persona pienamente affidabile che l'avrebbe aiutato in tutto, anche fornendogli denaro; Abderrazak, venuto a conoscenza che a Milano non avevano fatto trovare a Ciise un passaporto (falso), gli dice che l'avrebbe messo in contatto con Dake (Daki) Mohamed "quello che è stato con noi di là" (è evidente che Abderrazak si riferisce al fatto che Daki era stato in Germania, dove viveva anche Abderrazak), che avrebbe provato a contattare.
Secondo il P.M. appellante (cfr. motivi a pag. 62), la suddetta conversazione proverebbe che Daki non era stato utilizzato occasionalmente; che lo stesso sarebbe stato giudicato più affidabile di Mera'j e che dalla telefonata risulterebbe ben inserito nel gruppo.
Il tenore della conversazione, però, non giustifica affatto le conclusioni del P.M.. Infatti, Ab derrazak pensa a Daki, solo dopo aver saputo che Mera'j non aveva già procurato un passaporto falso a Ciise. E con tutta probabilità ha pensato a Daki (con il quale cercherà di mettersi in contatto subito dopo questa conversazione), sapendo che questi era di nazionalità marocchina e che Ciise era alla ricerca di un passaporto di questa nazionalità. Non può nemmeno dirsi che dal tenore della conversazioni risulti che Daki era ben inserito nel gruppo, perché Abderrazak deve chiedere ad altri il recapito telefonico di Daki e non sa neppure che lo stesso vive a Reggio Emilia (cfr. la successiva telefonata).
Pochi minuti dopo (h. 14,55), Abderrazak si mette di nuovo in contatto con Ciise e gli dà il numero del cellulare di Daki, con il quale non è riuscito però a mettersi in contatto; Ciise si mostra preoccupato di non riuscire a trovare il passaporto "se non trovo le pagine ho una grande responsabilità verso gli altri fratelli"; Abderrazak lo tranquillizza "nien te paura, sappi che Dake è specialista in queste cose, riguardo a te prendi il suo personale"; Ciise chiede se Daki sarebbe disposto a dargli il suo passaporto e Abderrazak gli risponde "al cento per cento ti dà il suo, sulle indicazioni che mi hanno dato si trova nella stessa città che ti trovi tu (cioè Milano); poi gli dice che Mera'j avrebbe pensato a dargli "i soldi per le spese e per girare".
Secondo il P.M. appellante (cfr. motivi a pag. 63), dalla riportata conversazione si dovrebbe desumere che Daki era un tecnico specialista nelle falsificazioni e non un occasionale falsificatore o favoreggiatore; ed inoltre che Ciise era incaricato di procurare passaporti falsi anche per "i fratelli".
Non sembra che si possano condividere neppure queste conclusioni, esaminando attentamente la conversazione in esame ed inserendola nel suo contesto.
La frase "se non trovo le pagine ho una grande responsabilità verso gli altri fratelli" non significa univocamente che Ciise era incaricato di trovare documenti falsi anche per altri fratelli (oltre che per sé). In una nota contenuta nel testo della stessa conversazione (pag. 62 dei motivi d'Appello del P.M.), il traduttore avverte che la parola "waraca" (tradotta nel testo "pagine") vuol dire anche documenti o materiale cartaceo; quindi la prima parte della frase può essere letta anche "se non trovo il passaporto (la carta)"...; e in effetti, da tutto l'episodio risulta che Ciise era alla ricerca solo del passaporto per sé, perché ansioso di raggiungere la Siria. Tra l'altro, non vi è traccia di persone che sarebbero dovute partire con lui per la Siria. La seconda parte della frase (ho una grande responsabilità verso i fratelli) si riferisce, assai più plausibilmente, alla responsabilità che Ciise sente verso le persone, pronte a combattere, che si era impegnato a raggiungere (per combattere con loro). Una frase dello stesso senso, significativamente, Ciise l'ha pronunciata nella riportata conversazione con Mera'j, intercettata nei locali della Questura di Milano: "Non sono preoccupato per me, io sono preoccupato per gli altri, per i fratelli di là che mi stanno aspettando".
Anche la frase di risposta pronunciata da Abderrazak (niente paura, sappi che Dake è specialista in queste cose, certamente ti darà il suo passaporto) non è del tutto soddisfacente interpretarla nel significato che Daki sarebbe uno specialista nelle falsificazioni dei passaporti, perché è palesemente incongruo che uno specialista in falsificazioni di passaporti, anziché usare la sua abilità e i suoi mezzi professionali per formare un passaporto falso, ceda il proprio passaporto.
E' invece assai più logico, in quel contesto, che Abderrazak abbia voluto rincuorare l'amico, dicendogli che Daki era una persona "specialista" nell'aiutare i fratelli quando si trovavano in difficoltà (in queste cose); e solo così ha una logica la frase seguente: risolverà il tuo problema, dandoti il suo passaporto.
Nella telefonata del 24 marzo 2003 ore 17,16, Mera'j e Daki (che all'evidenza non si conoscono, perché Mera'j viene a sapere solo in questa telefonata che Daki vive a Reggio Emilia e non a Milano) si accordano per vedersi l'indomani.
Il 25.3.2003 alle ore 17,15, Daki chiama Mera'j e dice di essere all'Istituto (in Viale Jenner); Mera'j lo invita ad aspettare lì Ciise.
Ci sono alcune telefonate in cui Daki (evidentemente mentre aspetta) chiede a Mera'j se il somalo verrà e, in una di queste, chiede a Mera'j anche quale fosse l'aspetto fisico di costui (quindi, non l'aveva mai visto prima).
Nella giornata del 27 marzo, Daki (che è a Reggio Emilia) parlando al telefono alle ore 19,48 con Mera'j (che è a Milano) si informa se Ciise sta venendo a Reggio Emilia e appare pre occupato per il fatto che Ciise non dia notizie di sé; sembra che Daki abbia qualche cosa da consegnare a Ciise (guarda, se è a Reggio gli do la cosa e l'accompagno da te).
Ciise, in realtà, aveva passato la giornata del 27 a Como, incontrando l'algerino Boucheliga Fouad. In tarda serata, aveva avvertito Mera'j che non si sarebbero visti e gli aveva sollecitato il reperimento del documento (non sembra, quindi, che Daki si riferisse al documento che Ciise cercava, quando aveva detto a Mera'j che aveva una cosa da consegnare a Ciise, perché altrimenti Mera'j avrebbe dovuto tranquillizzare Ciise a proposito del passaporto che cercava; peraltro è certo che Daki, in seguito, non ha consegnato a Ciise alcun passaporto e che è stato invece Mera'j a procurare un passaporto a Ciise, anche se questi non ha potuto utilizzarlo perché è stato arrestato).
Ciise è poi partito in treno (da Milano) per Reggio Emilia il 28 marzo alle ore 14,10. L'inc ontro con Daki è avvenuto nei pressi della stazione ferroviaria di Reggio Emilia intorno alle 16,20, e i loro movimenti sono stati seguiti dagli operanti, i quali hanno notato che i due, inizialmente, avevano finto di non conoscersi e si erano tenuti a una certa distanza l'uno dall'altro; poi, Ciise aveva seguito Daki, che si era diretto a piedi verso la sua abitazione, e solo dopo alcune centinaia di metri si erano riuniti e avevano proseguito il cammino insieme.
Daki non ha consegnato a Ciise il suo passaporto, perché nella tarda serata del 28 marzo Ciise, parlando animatamente al telefono con Mera'j, lo ha sollecitato ad attivarsi con più solerzia nella ricerca del documento, avendo esso Ciise necessità di partire. Dopo questa telefonata, Mera'j ha coinvolto Housni Jamal nella ricerca di un passaporto di nazionalità marocchina.
Ciise è stato ospitato da Daki nella sua abitazione (che condivideva con altri extracomunitari). Anc he nella giornata del 29 marzo Ciise è rimasto con Daki. Gli operanti hanno notato che quest'ultimo, mentre usciva di casa insieme a Ciise intorno alle ore 20, aveva guardato con insistenza verso gli operanti (evidentemente avendo capito di essere seguito dalla Polizia).
Il giorno 30 marzo, verso le ore 12, Daki ha accompagnato Ciise alla stazione ferroviaria. Dopo che Ciise è partito per Milano, Abderrazak ha chiamato Daki (telefonata 30 marzo 2003 ore 14,50) e tra i due si è svolta la seguente conversazione: Abderrazak chiede a Daki se il somalo "ha concluso la sua faccenda"; Daki gli risponde "così e così, sta andando in Germania dai fratelli"; Abderrazak viene a sapere che Ciise non ha risolto il suo problema con l'aiuto di Daki (perché questi non gli ha dato il suo passaporto); Daki dice ad Abderrazak che sono stati seguiti dalla Polizia; Abderrazak gli raccomanda di ignorare gli agenti e Daki dice "l'importante è che il fratello arrivi a destinazione"; Abderrazak si raccomanda di non fare individuare gli altri e lo invita a spostarsi in un paese vicino "normalmente senza andare lontano"; alla domanda di Daki "esattamente come?" risponde di spostarsi in Francia e di aspettare l'ordine; Daki chiede come avrebbe potuto fare per ottenere i visti; Abderrazak gli dice che l'avrebbe chiamato, raccomandandosi di "non rovinare tutto".
Dal tenore della suddetta conversazione - ma anche dalle descritte modalità di incontro tra Ciise e Daki nei pressi della stazione ferroviaria di Reggio Emilia - emerge con evidenza che tutti e tre (Abderrazak, Ciise e Daki) erano coinvolti in un'attività che volevano tenere nascosta alle forze di Polizia e che agivano per un fine comune.
Ma dal complesso delle prove raccolte emerge con altrettanta chiarezza che lo scopo che volevano raggiungere era quello di consentire a Ciise, procurandogli documenti falsi, di raggiungere "i fratelli" per combatter e in Iraq contro gli americani (l'urgenza era data dal fatto che la guerra era già iniziata da circa una settimana).
E non deve stupire che i tre agissero con tante cautele. Erano, infatti, ben consapevoli di svolgere un'attività non solo delittuosa (formazione di documenti falsi), ma anche assolutamente inaccettabile per lo Stato italiano, che certo non avrebbe mai tollerato che sul proprio territorio si reclutassero persone per combattere contro gli Stati Uniti in Iraq.
Daki condivideva le ragioni per le quali Ciise voleva partire, e per questo lo ha aiutato in vario modo: è andato a Milano per incontrarlo; l'ha ospitato a casa sua a Reggio Emilia e, quando è andato a prenderlo alla stazione, ha eseguito una serie di manovre, prima di avvicinarsi, al fine di verificare se fosse seguito; prima che lo stesso partisse per la Germania, gli ha dato i numeri telefonici di due suoi amici (Fadli e Reda) ai quali si sarebbe potuto rivo lgere e che l'avrebbero potuto aiutare. Anche alcuni passaggi della riportata telefonata tra Abderrazak e Daki comprovano che questi conosceva e condivideva pienamente le ragioni della missione di Ciise: a un certo punto Daki dice "l'importante è che il fratello arrivi a destinazione" e in seguito, per consentire a Ciise di arrivare in Germania e per non far scoprire le persone che stavano aiutando il predetto, sembra persino disposto ad accogliere il pressante invito (non rovinare tutto) di Abderrazak di spostarsi in Francia e "aspettare l'ordine" (probabilmente, il via libera per tornare a Reggio Emilia).
Però, la solidarietà di Daki non è arrivata al punto da cedere il suo passaporto a Ciise (aveva inserito i dati di quel passaporto nelle domande che aveva presentato in Questura a Reggio Emilia, e quindi quel passaporto gli serviva per regolarizzare la sua posizione in Italia), né Daki ha ritenuto di doversi allontanare da Reggio Emilia, per favorire il predetto Ciise e gli altri amici che lo stavano aiutando.
La sostanziale estraneità di Daki al gruppo (pur condividendo, in quel momento, le ragioni per le quali un musulmano doveva andare a combattere contro gli americani in Iraq) è dimostrata dal fatto che, dopo l'arresto di Mera'j, di Ciise e di altri, non solo non è scappato, ma addirittura è andato (il giorno dopo che erano stati eseguiti detti arresti e che era stato anche perquisito l'appartamento dove abitava) a rappresentare in Questura le sue difficoltà nel reperire un altro alloggio, poiché le persone con le quali condivideva l'appartamento - dopo l'intervento della Polizia - non lo volevano più con loro.
L'occasionalità del suo coinvolgimento nei fatti di causa risulta, tra l'altro, dal fatto che non aveva rapporti e neppure conosceva le persone sopra indicate che a Milano, Parma e Cremona erano impegnate - all'epoca dei fatti di causa - nell'attività più volte descritta (nelle intercettazioni telefoniche disposte nei confronti delle suddette persone non è mai apparso un riferimento a Daki Mohamed o a persona operante a Reggio Emilia). E il coinvolgimento nell'episodio Ciise è avvenuto per iniziativa del tutto estemporanea del solo Abderrazak, il quale, venuto a conoscenza che a Milano non avevano procurato a Ciise il passaporto di nazionalità marocchina che lo stesso stava cercando, ha pensato di rivolgersi a Daki, persona da lui conosciuta ad Amburgo e che sapeva essersi trasferita in Italia (ma non in quale città), ritenendo che il predetto - sia per il suo carattere che per i suoi orientamenti politici - avrebbe certamente aiutato Ciise nella ricerca di un passaporto marocchino.
Anche dagli interrogatori resi da Daki dopo il suo arresto si ricava una conferma della sua sostanziale estraneità alle persone coinvolte nei fatti di causa, poiché quanto ha dichiarato è stato tutto sostanzialmente riscontrato.
Nell'interrogatorio davanti al GIP di Milano in data 7 aprile 2003, in particolare, ha reso una versione dei fatti che ha trovato piena conferma nelle intercettazioni telefoniche: aveva solo fatto un piacere ad Abderrazak, che gli aveva telefonato dalla Siria confidandogli di essere lì per combattere; il somalo gli aveva detto, chiedendogli il passaporto, che voleva andare in Siria per raggiungere Abderrazak e combattere insieme a lui in Iraq contro gli americani; egli si era rifiutato di consegnare il suo passaporto a Ciise; Abderrazak gli aveva suggerito di spostarsi in Francia, solo perché esso Daki gli aveva detto che la Polizia stava seguendo Ciise.
Altro dato obiettivo, che depone per la sostanziale estraneità di Daki alla vicenda in esame, è che, da quando è venuto in Italia nel 2002, ha sempre lavorato a Reggio Emila, dove non ha frequentato persone sospette (le persone con le quali condivideva l'abitazione pare che non lo vole ssero più con loro, dopo che l'appartamento, per causa di Daki, era stato sottoposto a perquisizione). Ed è significativo che all'esito della perquisizione non sia stato trovato alcun documento di un qualche interesse per le indagini (una tessera della previdenza sociale tedesca; una carta di credito tedesca e un biglietto da visita della Federazione Islamica di Amburgo).
Lo stesso Daki, negli interrogatori successivi, ha ammesso di aver frequentato moschee in Amburgo frequentate anche da islamici radicali (in una moschea di Amburgo aveva conosciuto anche Abderrazak); ha spiegato in che occasione aveva conosciuto Ramzi Omar Binalshib (al quale nel 97-98 aveva dato la disponibilità del proprio indirizzo per ricevere la posta, peraltro - secondo Daki - mai pervenuta) e altri arabi (alcuni dei quali pare che siano risultati implicati nei fatti dell'11 settembre 2001); negando sempre fermamente di aver partecipato a gruppi terroristici.
Una volta accertato, però, che Daki Mohamed era sostanzialmente estraneo alle attività oggetto di indagine nel presente processo, risulta assai improbabile, e comunque assolutamente non provato, che abbia partecipato ad Amburgo alla preparazione e organizzazione di attività terroristiche, non risultando in alcun modo a quale organizzazione avrebbe aderito; in quale epoca e con quali persone si sarebbe associato; quali sarebbero state le attività terroristiche alla cui preparazione avrebbe partecipato e che tipo di sostegno avrebbe dato all'organizzazione.
Correttamente il Pubblico Ministero appellante sostiene che possono essere utilizzate le informative del BKA (nella parte in cui riferiscono dell'attività compiuta dalla Polizia giudiziaria tedesca, e non, ovviamente, nelle parti in cui riportano notizie di intelligence), ma da queste informative non si traggono elementi di rilievo a carico di Daki Mohamed.
Certamente n on possono trarsi utili elementi, per provare l'inserimento in organizzazioni terroristiche, dalla frequentazione di moschee; da una certa adesione al fondamentalismo islamico (anche se non risultano specifici elementi che, con riguardo a Daki, facciano pensare ad una sua adesione a correnti estremistiche del fondamentalismo); dalla mera conoscenza di persone che - non si sa bene in base a quali elementi - sono state sospettate di essere implicate in organizzazioni terroristiche; da un rapporto con Ramzi Omar Binalshib che, per l'epoca in cui si è svolto, ben difficilmente può essere messo in relazione con quanto anni dopo il predetto Ramzi avrebbe compiuto.
D'altra parte, le autorità tedesche, a conoscenza dei rapporti che Daki ha avuto ad Amburgo con tutte le persone indicate nei motivi d'appello del P.M. (trattando la posizione di Daki Mohamed), dopo aver svolto le opportune indagini, non hanno mai preso alcun provvedimento a carico del predetto, r itenendo evidentemente che gli elementi raccolti non erano sufficienti per formulare una qualsiasi accusa.
Passando all'esame della posizione di Bouyahia Maher, non vi è dubbio che il predetto, a differenza di Daki Mohamed, ha avuto un rapporto non occasionale con Mera'j ed è opportuno, prima di analizzare gli elementi in base ai quali deve essere ricostruito il suddetto rapporto, sintetizzare quanto con sicurezza emerge dagli atti sui suoi spostamenti e sui rapporti intrattenuti con altre persone nel periodo che qui interessa.
Un primo dato - da mettere in evidenza, perché getta una luce sulla personalità dell'imputato e sui suoi interessi nel campo della criminalità comune - è che Bouyahia Maher è giunto in Italia alla fine di aprile del 2002, dopo essere stato detenuto in Francia per diciannove mesi per violazioni della legge sugli stupefacenti.
Considerato questo lungo periodo di detenzione in Francia, è difficile collegare strettamente l'imputato alle attività del fratello Hamadi a Milano, tanto più che questi è stato espulso dall'Italia il 6 maggio 2002, e quindi i due fratelli sono rimasti insieme a Milano per poco più di una settimana.
E' vero che Maher ha subito partecipato ad attività svolte dal fratello, in particolare accompagnandolo il 2 maggio 2002 in una agenzia a Milano della Western Union, dalla quale Hamadi ha mandato a F'radi il Libico (Zoghbai Merai) euro 775,00; e poi, nello stesso mese di maggio (quando il fratello Hamadi non era più in Italia) ha avuto contatti telefonici con il predetto F'radi il Libico, per procurare allo stesso documenti falsi, sconsigliandogli anche di soggiornare in un certo albergo di Istambul, perché nello stesso il personale era in contatto con la Polizia. Ma non risulta che Maher sia stato coinvolto in una qualsiasi attività terroristica di cui F'radi il Libico è stato poi accusat o, anche perché, nonostante le utenze usate da Maher fossero tutte sotto controllo, non è mai risultato che tra i due vi fossero stati altri rapporti, oltre quelli concernenti i documenti falsi di cui F'radi il Libico aveva bisogno.
Vi è da aggiungere che, dopo mesi di ascolto delle telefonate effettuate da Maher, gli inquirenti avevano ritenuto di dover interrompere le operazioni di intercettazione, poiché nulla di interessante (oltre il suddetto contatto con F'radi il Libico) era emerso ai fini delle indagini. In particolare, non risulta che Maher, nel suddetto periodo, abbia avuto alcun tipo di contatto con Mera'j.
Giunto a Milano alla fine di aprile, Maher è andato ad abitare con il fratello nell'appartamento che questi occupava in Corso XXII Marzo n. 39, ed è rimasto in questo appartamento fino all'ottobre 2002, quando ha lasciato l'Italia; prima di partire, ha ceduto le chiavi del suddetto appartamento a un connazionale (Cher if Fouad, che non risulta imputato) di cui si accennerà in seguito, analizzando le intercettazioni telefoniche relative a Maher.
Nel periodo trascorso a Milano (maggio-ottobre 2002), Maher ha subìto due perquisizioni nell'appartamento di Corso XXII Marzo: una in data 12 luglio 2002 (nel corso della quale sono stati sequestrati un manuale intitolato "Elementi di base per la preparazione della Jihad per la causa di Allah"; un permesso di soggiorno francese falso a nome del fratello Hammadi; numerose foto tessere tra cui quella di F'radi il Libico; euro 8.625,00 e numerose musicassette contenenti preghiere arabe) e l'altra in data 9 ottobre 2002, a seguito della quale, però, nulla di rilevante per le indagini è stato rinvenuto.
Per quanto riguarda il suddetto manuale - anche tralasciando il fatto che Maher ha negato che fosse suo, ed effettivamente non può escludersi che fosse del fratello, il quale ha abitato in quell'appartamen to per lungo tempo - non ritiene la Corte che lo stesso esalti in qualche modo l'attività terroristica, ritrovandosi, invece, solo tipici temi del fondamentalismo islamico (e soprattutto la preparazione alla Jihad, intesa come dovere di tutti i musulmani di combattere contro gli oppressori). In particolare, nel capitolo secondo, trattando delle "regole di addestramento militare per i musulmani", laddove si dice che nelle azioni di guerra bisogna spargere terrore "fra i vostri nemici e quelli di Allah e fra quelli che non conoscete e che Allah conosce", non si fa riferimento, evidentemente, al compimento di azioni terroristiche in senso proprio (che, come più volte si è detto, hanno come caratteristica imprescindibile di rivolgersi contro persone innocenti, estranee al conflitto), ma ad "azioni di guerra" condotte con tanta determinazione e ardore da incutere terrore in tutti i nemici.
Anche la consistente somma sequestrata nel corso della pri ma perquisizione non può fare fondatamente ritenere che fosse destinata alla preparazione di una qualche attività terroristica, sia perché non vi è alcuna traccia di questa attività in quel che Maher stava facendo all'epoca in Milano, sia, soprattutto, perché il predetto non è risultato estraneo ad attività criminali, tra le quali traffici di droga e di documenti falsi.
Nella scheda dell'imputato contenuta nei motivi d'appello, si afferma che Bouyahia Maher, dopo aver lasciato l'Italia, era andato in Siria e poi in Iran, "da dove poi era entrato clandestinamente in Iraq raggiungendo il campo di addestramento di Ansar Al Islam a Kurmal. Circa due mesi dopo si era trasferito in Turchia, ad Istambul, al fine di aiutare nuovi volontari nel viaggio di trasferimento verso il campo di addestramento di Kurmal".
Queste notizie, tratte esclusivamente da c.d. fonti d'intelligence e mai riscontrate, non possono avere ingresso nel presente processo, nel corso del quale si è solo accertato - a proposito degli spostamenti di Maher - che nell'ottobre del 2002 ha lasciato l'Italia e che nel febbraio-marzo 2003 era in Turchia, perché da questo paese ha avuto contatti telefonici con Mera'j (Maher è poi tornato dalla Turchia in Italia il 12 agosto 2003, e non risulta che in Turchia sia stato arreatato nel periodo di cui trattasi, come ancora hanno riferito fonti di intelligence).
L'imputato ha sostenuto di essere partito dall'Italia nell'ottobre 2002, a seguito delle perquisizioni subìte a Milano e dell'arresto del fratello (effettivamente il fratello Hamadi è stato arrestato a Malta nell'ottobre 2002 ed espulso in Italia) e di essere andato subito in Turchia, dove sarebbe sempre rimasto, fino a quando (nell'agosto 2003) era poi tornato in Italia.
La tesi dell'imputato non appare inverosimile, sia perché appare logico che - una volta resosi conto di essere controllato dalla Polizia italiana (che aveva già effettuato due perquisizioni nella sua abitazione) - abbia ritenuto opportuno cambiare paese, sia perché effettivamente Maher aveva una buona conoscenza della Turchia (paese nel quale ha ammesso di essersi recato più volte per non chiariti acquisti di merci), tant'è che nelle riportate conversazioni con F'radi il Libico era stato in grado di sconsigliare allo stesso di soggiornare in un certo albergo di Istambul.
Tenuto conto di quanto sopra, non sembra del tutto plausibile - e comunque non risulta provato - che Maher sia andato in Turchia su incarico di Mera'j, perché, tra l'altro, questi era strettamente sotto controllo negli ultimi mesi del 2002, e non risulta alcun contatto telefonico tra i due.
Neppure è credibile però - tenuto conto di quanto si dirà tra poco circa i rapporti tra Mera'j, Moullah Fouad e Maher - quanto ha dichiarato Mera'j sulle casuali ragioni per le q uali, all'inizio del 2003, si sarebbe messo in contatto con Maher (su sollecitazione di parenti dello stesso, che non sapevano che fine avesse fatto), così come non è assolutamente credibile, alla luce delle intercettazioni telefoniche, quello che hanno sostenuto Mera'j e Maher, e cioè che tra loro vi sarebbero stati solo sporadici rapporti telefonici, in un'occasione per far pervenire un computer a Moullah Fouad (chiesto da Maher a Mera'j) e in un'altra perché Maher aveva bisogno di documenti, in quanto glieli avrebbero rubati in Turchia, non si sa in quale occasione (fatto risultato non vero, perché in una conversazione - che si vedrà tra poco - con suo fratello Usama, Maher ha confidato di essere riuscito a non far ritrovare alla Polizia Italiana il suo passaporto).
Una visione complessiva degli elementi di prova raccolti, invece, ha convinto questa Corte che Bouyahia Maher ha partecipato, almeno dall'inizio di febbraio 2003, all'attività (invio di vol ontari musulmani dall'Europa in Iraq per combattere contro gli americani) in cui all'epoca erano molto impegnati Mera'j e Mullah Fouad, svolgendo un ruolo nella falsificazione dei documenti che occorrevano ai volontari per spostarsi dall'Europa in Iraq, ruolo nel quale, peraltro, aveva una certa esperienza, come si evince dalle numerose fototessere sequestrate nella menzionata perquisizione dell'appartamento di Milano e dai rapporti intrattenuti con F'radi il Libico, proprio per procurargli documenti d'identità falsi.
Un primo elemento è costituito dal fatto che, nel periodo febbraio-marzo 2003, era in contatto sia con Mullah Fouad sia con Mera'j, i quali - come si è già visto - erano all'epoca molto impegnati nell'invio di volontari in Iraq, poiché era imminente (e si è poi verificato il 20 marzo 2003) l'intervento degli Stati Uniti nel predetto paese.
Sul punto sono significative anche le (parziali) ammissioni di Mera'j, il qual e più volte ha fatto riferimento ai rapporti tra Bouyahia Maher e Mullah Fouad, ma è pienamente rivelatrice la telefonata del 23.3.2003, ore, 16,55, tra Mera'j e Mullah Fouad, nella quale, dopo aver parlato proprio dell'invio di volontari, quest'ultimo dice "ricordati del computer" e Mera'j gli risponde chiedendo se avesse passato la richiesta (del computer) al gruppo della Turchia; Mullah Fouad dice di averlo fatto. Quindi risulta evidente che i due, per compiere l'attività in cui erano impegnati, potevano contare anche sul gruppo della Turchia, nel quale era certamente inserito Bouyahia Maher, come peraltro risulta dall'ammissione di Mera'j di aver ricevuto da Maher la richiesta di un computer per il Mullah Fouad.
Altro elemento sintomatico del coinvolgimento di Maher nella suddetta attività è costituito dal fatto che, nel suddetto periodo, ha ricevuto da Mera'j - tramite persone che con costui collaboravano (Housni Jamal e Toumi Alì) - varie somme di d enaro, un telefono cellulare, un computer e schede telefoniche.
Decisive, però, per dimostrare la collaborazione di Maher nell'attività svolta da Mera'j e dal Mullah Fouad, sono le telefonate intercettate, poiché dalle stesse si ricava chiaramente il coinvolgimento dello stesso Maher nell'attività di falsificazione di documenti, mentre assolutamente nulla emerge circa la contestata preparazione e organizzazione di un'attività terroristica.
Si indicano le telefonate più significative, integralmente riportate nei motivi d'appello del Pubblico Ministero:
telefonata del 6.2.2003, ore 18,26, tra Mera'j e Maher nella quale i due si scambiano dei numeri telefonici in codice (Maher dice a Mera'j, che non ha ancora capito come usare il codice, che "deve rovesciare il 9") e, verso la fine, Mera'j chiede se si è messo in contatto con Fouad e Maher gli risponde "mi ha parlato ieri";
telefon ata del 26.2.2003, ore 10,08, tra Mera'j e Maher, nella quale quest'ultimo si lamenta per il fatto che il vaglia di cento euro che gli è stato mandato contiene un errore nel nome del destinatario e chiede di farlo correggere da Jamal (Housni Jamal);
telefonata del 26.2.2003, ore 23,23, tra il suddetto Jamal e Mera'j, nella quale quest'ultimo chiede a Jamal (che deve andare in Turchia) di portare a Maher "il telefono Nokia";
telefonata del 27.2.2003, ore 17,02, nella quale Mera'j riceve assicurazioni da uno sconosciuto che Jamal è arrivato in Turchia e che ha consegnato il telefono (cellulare Nokia);
telefonata del 2.3.2003, ore 15,17, tra Jamal e Mera'j, nella quale questi dice che spedirà "le tue cose" e gli chiede di comunicare a Maher "di cercare 3";
telefonata del 7 marzo 2003, ore 16,21, nella quale Maher preannuncia che Cherif Fuad (la persona che all'epoca abitava nell'appa rtamento dei fratelli Bouyahia) "verrà da te a portarti una cosa";
telefonata 8.3.2003, ore 17,04, tra Maher e Toumi Alì, nella quale quest'ultimo chiede se "la cosa è arrivata" e preannuncia l'arrivo di "un'altra cosa in questi giorni"; poi Toumi avverte che un certo El Habib gli porterà le foto (dello stesso El Habib); Maher risponde che quando avrà le foto, egli "metterà a posto le foto" (le apporrà sul documento da falsificare) ed El Habib potrà portare indietro "il tutto completo"; Toumi gli dice che allora verrà lui (a portare le foto ed a ritirare il documento completo) perché la persona "quando viene da te non tornerà più indietro" (evidentemente si trattava di qualcuno dei volontari da istradare, probabilmente tramite il Mullah Fouad, verso l'Iraq);
telefonata del 16.3.2003, ore 15,03, nella quale una persona sconosciuta (alla quale Mera'j aveva passato il telefono per parlare con Maher) chiede a Maher se "torni qui" (evide ntemente a Milano) e Maher gli risponde di no; lo sconosciuto chiede anche se "il gruppo sta bene" (riferendosi evidentemente alle persone che operavano con Maher in Turchia);
telefonata del 28.3.2003, ore 17,57, nella quale Jamal dice a Maher che tra venti minuti gli trasmetterà qualcosa via e mail (ho bisogno di te sul net).
Vi sono, poi, alcune telefonate, successive all'arresto di Mera'j e delle altre persone sopra indicate, che comprovano il coinvolgimento di Bouyahia Maher nell'attività svolta da Mera'j.
In particolare, nella telefonata del 5.4.2003, ore 00,55, il già nominato Cherif Fouad (che abitava nell'appartamento in Milano dei fratelli Bouyahia), parlando con uno sconosciuto (un amico di Maher che stava in Turchia con lo stesso Maher), lo avverte che a Milano "è successo di tutto, tutti stanno volando.." (evidentemente si riferisce agli arresti avvenuti nei giorni precedenti) e che "tutti i tel efoni sono...mi hai capito?"; poi aggiunge che Jamal (Housni Jamal) "ha strappato tutti i tuoi documenti e i tuoi indirizzi... lui si è ritirato completamente"; gli chiede anche di non chiamare nessuno e gli dice che ha trovato un'altra soluzione per inviargli i soldi; conclude dicendo "c'è la carne sopra il fuoco. Questi giorni.. mamma mia..lascia che si freddi la cosa".
Per completare la rassegna degli elementi specifici di prova a carico di Bouyahia Maher, è opportuno sintetizzare l'episodio nel quale è stata coinvolta Bentiwaa Farida Ben Bechir, una tunisina amica d'infanzia di Maher, la quale all'epoca dei fatti viveva a Padova.
Bentiwaa aveva bisogno di ottenere il permesso di soggiorno in Italia e Maher - dalla Turchia, nei primi mesi del 2003 - l'aveva mandata da Toumi Alì, il quale, essendo presidente di una cooperativa di lavoro a Milano (oltre che amico di Maher), l'avrebbe potuta aiutare, rilasciandole una (falsa) attesta zione di lavoro, necessaria per ottenere il permesso di soggiorno.
Nella telefonata del 17.3.2003, ore 18,27, intercettata sul telefono cellulare di Toumi, Maher (che chiamava dalla Turchia) chiede a Toumi notizie della pratica che riguardava Bentiwaa.
E' stata poi intercettata una telefonata (22.5.2003 ore 16,29) tra Bentiwaa e Maher, nella quale quest'ultimo (che era in Turchia) le chiede di procurargli - tramite il fratello della stessa Bentiwaa, Ouisam - un documento d'identà falso (Maher specifica che le avrebbe mandato una copia del suo passaporto e una foto); Bentiwaa si lamenta con Maher di come si stava comportando Toumi (perché lo stesso non si occupava con solerzia della pratica che interessava alla Bentiwaa).
Successivamente (telefonata del 12.7.2003, ore 18,29) Maher ha avvertito Bentiwaa di essere arrivato in Grecia e, nel corso di questa telefonata, ha criticato Toumi per aver preteso una som ma di denaro eccessiva dalla Bentiwaa per rilasciare la dichiarazione di cui la predetta aveva bisogno per ottenere il permesso di soggiorno.
Nella telefonata del 12.8.2002, ore 20,07, Maher ha avvertito Bentiwaa di essere arrivato in Italia.
Maher ha raggiunto Padova (dove viveva Bentiwaa), ma nella telefonata del 17.8.2003, ore 18,41, dice alla predetta che preferisce non andare a trovarla a casa, "perché c'è troppo traffico" (Bentiwaa era ospite di Peron Alda, la quale all'epoca esercitava la prostituzione, e la casa era frequentata anche dal predetto fratello di Bentiwaa, dedito a traffici di sostanze stupefacenti).
Maher, che era seguito e controllato dagli inquirenti, è stato poi fermato (simulando un controllo casuale) il 1°.10.2003 nella stazione ferroviaria di Bologna e, poiché era privo di permesso di soggiorno, è stato accompagnato prima in un Centro di Accoglienza di Bologna e poi nel Centro di Accoglienza di Milano in Via Corelli.
Il giorno dopo (2.10.2003) è stata eseguita una perquisizione nell'abitazione (a Padova) della Bentiwaa, nel corso della quale è stato sequestrato un permesso di soggiorno chiaramente falso, apparentemente rilasciato dalla Questura di Milano, a favore di Bouyahia Maher, con scadenza 7.10.2004, oltre ad altri documenti falsificati (un permesso di soggiorno e una carta d'identità) a nome di Mokrani Hakim, ma riportanti la foto del fratello sopra indicato della Bentiwaa.
Nel verbale di perquisizione si dà atto che Peron Alda, alla richiesta degli inquirenti che precede l'inizio della perquisizione, consegnava spontaneamente uno zainetto (che prelevava dalla sua camera) contenente la somma di euro 200.675,00, rivendicando la proprietà di detta somma.
Per quanto riguarda il falso permesso di soggiorno a suo nome trovato a casa della Bentiwaa, Maher ha ammess o di esserselo procurato a Milano ed ha asserito di averlo dimenticato dalla Bentiwaa (secondo il suo difensore, invece, non l'avrebbe utilizzato, perché troppo grossolanamente falsificato); nulla ha detto di sapere circa la somma di denaro sequestrata a casa della Bentiwaa.
Nei confronti di Bentiwaa, il GIP di Milano ha emesso in data 25.11.2003 ordinanza cautelare che non è stata immediatamente eseguita, poiché la predetta era nel frattempo tornata in Tunisia.
In data 22 dicembre 2003, Bentiwaa è stata interrogata (in stato di detenzione in carcere) dal GIP di Milano ed ha dichiarato quanto segue: era ritornata in Italia (pur sapendo di essere ricercata) per chiarire la sua posizione; era giunta per la prima volta in Italia nel luglio 2000, poiché suo fratello Ouisam era detenuto a Padova per violazioni della legge stupefacenti; dall'aprile 2003 era stata ospitata da Alda Peron e si era trattenuta a Padova, poiché doveva subir e un intervento chirurgico di mastectomia, al quale si era sottoposta nel luglio 2003; era partita dall'Italia il 15.11.2003 per poter partecipare al matrimonio della sorella di Maher a Tunisi; effettivamente Maher le aveva chiesto di procurargli, tramite Ouisam, un passaporto falso, ma essa Bentiwaa non l'aveva fatto; i documenti falsi a nome di Mokrani Hakim erano di suo fratello; Toumi, per farle ottenere il permesso di soggiorno, aveva preteso ottocento euro; la somma di denaro sequestrata era della Peron, la quale si prostituiva in casa e, recentemente, aveva venduto un suo appartamento in Vicenza.
Sentita ancora dal Pubblico Ministero di Milano in data 26.2.2004, ha confermato quanto aveva dichiarato al GIP e, solo dopo essere stata pressantemente invitata a dire la verità, ha aggiunto che nella somma sequestrata vi era una minima parte frutto dello spaccio di sostanze stupefacenti di suo fratello Ouisam. E in un successivo interrogatorio reso al P .M. il 26.4.2004 ha dichiarato che Maher le faceva paura per il suo fanatismo religioso ed ha manifestato incertezze sul proprietario della suddetta somma.
E' stata, infine, intercettata una telefonata (in data 13.10.2003, ore 22,28) che Maher, dal Centro di Accoglienza di Milano in cui si trovava in attesa di essere espulso,ha fatto a suo fratello Usama (che si trovava in Tunisia), nella quale quest'ultimo lo avverte che la Polizia tunisina sta ricevendo notizie "dall'amico lì" e lo invita (quando, espulso in Tunisia, dovesse essere interrogato) a non negare di conoscere le persone i cui nomi gli sarebbero stati fatti da coloro che l'avrebbero interrogato; Maher chiede se Bentiwaa "ha parlato con sua madre" e aggiunge che esso Maher deve conoscere cosa gli inquirenti le hanno chiesto.. "così io sono preparato"; Usama rimprovera Maher di aver detto (quando era stato fermato a Bologna) che i suoi documenti erano presso Bentiwaa; Maher gli risponde di non av er parlato della Bentiwaa e rassicura il fratello, dicendogli che non gli avevano trovato il suo passaporto; Usama lo informa che nella perquisizione alla Bentiwaa hanno trovato soldi, ma "la donna lì" aveva detto che erano suoi; dice poi essere stata una fortuna che la polizia non aveva trovato il passaporto (di Maher) perché "i timbri sono pericolosi" (dai timbri si poteva dedurre che Maher era stato in Turchia).
Riassunte così tutte le emergenze che riguardano in modo specifico Bouyahia Maher, si possono trarre, valutando il complesso delle stesse, le seguenti conclusioni, oltre a quanto già precedentemente osservato a proposito di questo imputato.
Il predetto, quanto meno nei mesi di febbraio e marzo del 2003 (periodo in cui si trovava in Turchia), ha collaborato con Mera'j, soprattutto nel procurare allo stesso documenti falsi che venivano consegnati a coloro che dall'Europa volevano raggiungere l'Iraq per andare a combat tere contro gli americani.
Non risulta in alcun modo, da tutti gli elementi raccolti, che Bouyahia Maher fosse coinvolto nella preparazione di una qualche attività terroristica, e si deve ancora ribadire che le operazioni in discorso non possono essere considerate sotto alcun profilo di natura terroristica, tanto più che, all'epoca, i volontari effettivamente si preparavano a combattere in Iraq (l'intervento americano era dato da tutti per imminente) e non a compiere attentati terroristici; attentati che, invece, hanno caratterizzato la storia del predetto Paese molti mesi dopo i fatti di cui al presente processo, come si è messo in evidenza nella prima parte della motivazione della sentenza.
Non è stato possibile accertare in che modo e in quale momento Bouyahia Maher è stato coinvolto nella descritta attività che, a Milano, era sicuramente diretta e organizzata da Mera'j. Tuttavia appare evidente che Maher, nella suddetta atti vità, ha ricoperto solo un ruolo secondario (limitato alla formazione di documenti falsi), come si deve desumere non solo dalla personalità dell'imputato e dal contenuto delle intercettazioni telefoniche, ma anche dal suo isolamento dopo l'arresto di Mera'j.
Che fosse isolato e in difficoltà, risulta evidente anche dal fatto che - dopo l'arresto di Mera'j - non ha trovato di meglio che rivolgersi (per procurarsi documenti d'identità falsi) alla sua amica d'infanzia Bentiwaa, la quale, peraltro, non sembra che sia stata in grado di aiutarlo.
Non appare affatto accertato, come sostiene il Pubblico Ministero appellante, che la notevole somma di denaro sequestrata nell'abitazione della Bentiwaa fosse in realtà di Bouyahia Maher.
Il fatto che Peron Alda - la quale non risulta che avesse un qualche motivo per favorire Maher - spontaneamente e immediatamente, prima dell'inizio della perquisizione che certo non si aspettava, abbia rivendicato come sua detta somma, prelevandola dalla sua camera per mostrarla agli operanti, fa ritenere che effettivamente quel denaro fosse suo.
Bentiwaa, nelle prime dichiarazioni, aveva detto senza incertezze che la somma di denaro in discorso apparteneva alla predetta Peron. Le successive difficoltà che ha mostrato di avere (ma non ha mai detto che il denaro di cui trattasi era di Maher) potrebbero essere state determinate dalla paura di essere accusata (come in effetti è stata accusata) di far parte di un'associazione terroristica.
Anche la riportata telefonata tra Maher e suo fratello Usama non può essere interpretata solo nel senso che la somma di denaro apparteneva in realtà a Maher, perché Usama può aver espresso soddisfazione per la rivendicazione della somma da parte della Peron, perché così non vi sarebbero state contestazioni (anche se infondate) a carico di Maher con riguardo a quel denaro. T ra l'altro, non si comprende proprio - avuto riguardo al fatto che Maher era isolato, in fuga e in difficoltà - da chi avrebbe potuto ricevere o come si sarebbe potuto procurare una somma di denaro così elevata.
Non diversa dalla posizione di Bouyahia Maher appare quella di Toumi Alì, di cui si è già parlato, perché è risultato implicato nella stessa attività, diretta da Mera'j, nella quale era coinvolto anche Bouyahia Maher.
Toumi, nella vicenda in esame, ha avuto rapporti praticamente solo con Mera'j a Milano e con Maher che, all'epoca, stava in Turchia, e, poiché tutti e tre erano coinvolti nella stessa attività, gli elementi già analizzati a carico di Mera'j e Maher si riverberano anche su Toumi Alì.
Tra l'altro, Bouyahia Maher e Toumi Alì avevano in comune anche il fatto di essere stati coinvolti, ognuno per suo conto, in fatti di criminalità comune, e in particolare To umi era dedito (come ha ammesso) al rilascio, attraverso la cooperativa di cui era presidente, di false attestazioni di lavoro a extracomunitari che cercavano di ottenere il permesso di soggiorno in Italia.
E' opportuno riassumere le specifiche risultanze a carico di Toumi, per poter mettere a fuoco il ruolo dello stesso nella vicenda che ci occupa.
Vi sono, innanzi tutto, una serie di conversazioni telefoniche intercettate nei mesi di febbraio e marzo 2003, delle quali è utile riportare le più significative:
-la prima è del 16.2.2003, ore 19,04, tra Toumi e Mera'j, nella quale i due parlano di una "cosa" che era arrivata, ma che la persona (dal contesto generale si ricava che é Maher) che avrebbe dovuta ritirarla non era andato a prendere; i due decidono di vedersi l'indomani;
-telefonata del 18.2.2003, ore 17,14, nella quale Mera'j chiede a Toumi se ha deciso di partire oppure n o (si parla di un viaggio in Turchia, come risulterà dal prosieguo); Toumi risponde che non può partire e Mera'j si preoccupa "allora come facciamo a fargli (evidentemente si riferisce a Maher) arrivare le notizie e le cose?"; i due decidono di vedersi lo stesso giorno per discutere la cosa;
-telefonata del 27.2.2003, ore 19,21, Mera'j si lamenta perché non è stato chiamato da Toumi e gli dà di nuovo il numero del suo cellulare (3333230819); poi gli dice che si trova vicino alla moschea e gli chiede "Hai portato qualcosa dall'uomo?"; successivamente Toumi si informa se "l'uomo è andato" e Mera'j gli risponde "E' andato oggi. Ogni cosa giusta" (si riferiscono evidentemente alla partenza di un volontario per la Siria);
-telefonata del 5.3.2003, ore 20,14, tra Toumi (che aveva vicino Cherif Fouad, il quale partecipa alla conversazione) e Mera'j; Mera'j informa Toumi che l'uomo (un volontario) gli ha detto che era pronto; Toumi dice "la scorsa settimana uno e questa settimana un altro"; interviene Fouad e parla con Mera'j di Maher "che vuole prendere la moto" e gli dice " io ti darò il numero della targa a me intestata, non darla a nessuno"; interviene di nuovo Toumi e dice a Mera'j "il numero della targa è molto importante, se succede qualcosa sarà responsabile" (con tutta probabilità il numero di targa si riferisce ai dati del documento d'identità di Cherif Fouad, che dovevano essere utilizzati per la falsificazione di un documento);
-telefonata 8.3.2003, ore 17,04, già riportata trattando la posizione di Bouyahia Maher, nella quale Toumi ha detto che avrebbe portato lui in Turchia le foto da apporre sui documenti da falsificare, perché l'interessato "quando viene da te non tornerà più";
-telefonata del 17.3.2003, ore 18,27, alla quale si è già fatto cenno, nella quale Maher si interessa della pratica di Bentiwaa (cosa hai fatto su quella cosa là); Toumi gli risponde che se ne sarebbe occupato e che poi "faccio le cose per te e vengo in Turchia"; Maher allora gli chiede "puoi portare uno o due computer?"; Toumi risponde affermativamente e conclude la telefonata dicendo "salutami i ragazzi, Dio li faccia vincere" (da quest'ultima frase, pronunciata alla vigilia dell'intervento degli Stati Uniti in Iraq, si ricava una chiara conferma della ragione per la quale i due erano coinvolti, insieme a Mera'j, nella preparazione di documenti falsi);
-telefonata del 23.3.2003, ore 17,47, tra Toumi e un certo Habib (non meglio identificato), nella quale quest'ultimo appare interessato ad avere un passaporto del quale aveva già parlato con Mera'j; Habib svela anche la ragione per la quale tiene ad avere questo passaporto "Lasciami andare nella direzione di Dio (evidentemente partecipare alla Jihad), cosa sto facendo qui? Lasciami andare"; Toumi lo rassicura, dicendogli che gli avrebbe procurato il passaporto "d omani mattina passa a scegliere uno di quelli"; nel corso della stessa telefonata Toumi informa Habib che "il gruppo di Abu Magdi li hanno arrestati gli americani"; Habib chiede dove ciò è avvenuto e Toumi gli risponde "il posto in cui tu vuoi andare";
-telefonata del 27.3.2003, ore 14,04, tra Toumi e suo fratello Habib (che era intenzionato ad andare a combattere in Iraq), nella quale Toumi rimprovera il fratello perché parla in giro della cosa che sta per fare (tu stai partendo per la direzione di Dio, bisogna usare la testa); gli raccomanda prudenza anche perché "quello che tu hai preso" (il passaporto) appartiene a una persona senza permesso di soggiorno e "per di più si trova in prigione"; Toumi esplicitamente lo rimprovera che va dicendo in giro che andrà in Iraq a fare la Jihad, e, quando il fratello dice che non è vero, aggiunge "non dirmi di no. Chi sta dicendo queste parole? Perché è facile dire che vai a fare la Jihad in Iraq. Cos a vuoi che ci prendono? Sono parole pesanti. L'accordo che avevamo stabilito il giorno che ti ho presentato, come era? Non avevamo detto che tutto era segreto? Sono cose pesanti.... Volete rovinarmi? Abbiamo stabilito che questo era un segreto e che nessuno, neanche vostra madre e vostro padre, deve sapere queste cose.... Adesso la gente lì sta progettando la vostra situazione. Perché andate in giro a dirlo? Se siete intelligenti anche tra voi dovete far finta di non conoscervi.";
-telefonata del 28.3.2003, ore 19,56, nella quale Mera'j chiede a Toumi se è venuto "quel ragazzo che si chiama Reda"; Toumi gli risponde che ha appena telefonato e che "gli ho preparato tutto forse per lunedì o martedì"; Toumi chiede notizie di cosa Mera'j stia facendo per una persona che è molto impaziente di partire e crea problemi perché ne parla con tutti "vuole mandarmi in prigione; anche le persone che abitano con lui non lo sopportano più; uno di loro gli ha detto: ti paghiam o il biglietto e vai"; Mera'j gli risponde che "..ha tutto pronto, gli manca solo l'indirizzo".
Dalle riportate conversazioni telefoniche appare evidente, anche perché alcune sono del tutto esplicite, che Toumi collaborava con Mera'j (e con Maher) nella falsificazione di documenti d'identità da consegnare ai musulmani che avevano deciso di partire da Milano per raggiungere l'Iraq e combattere contro gli americani.
Tra le persone di cui è stata ordinata la cattura con l'ordinanza cautelare del GIP di Milano in data 31.3.2003 non vi è Toumi Alì, probabilmente perché gli inquirenti hanno ritenuto opportuno verificare - dopo l'arresto di Mera'j - con quali persone il predetto avrebbe avuto contatti.
Non risulta, però, dagli atti che, dopo l'arresto di Mera'j, Toumi Alì abbia avuto rapporti di rilievo ai fini delle indagini, neppure con Bouyahia Maher che, come si è visto, quando è ritornato in Italia non ha avuto contatti con Toumi.
Davanti a questa Corte, Toumi ha dichiarato di essersi recato in Tunisia (nel periodo giugno - agosto 2003), dopo aver avvertito personale della Questura di Milano con il quale - ha lasciato intendere - era in contatto; in Tunisia, nel suddetto periodo, l'avrebbero incarcerato e torturato, per conoscere con quali persone aveva contatti in Italia.
Ma di quanto ha raccontato Toumi Alì a questa Corte nelle sue dichiarazioni finali non vi è alcun riscontro negli atti di indagine contenuti nell'incarto processuale.
Risulta invece che il 15 novembre 2003 è stata disposta una perquisizione dell'abitazione e dell'ufficio di Toumi Alì, all'esito della quale è stata sequestrata una copiosa documentazione, in gran parte relativa all'attività (illecita) che Toumi svolgeva per far ottenere ad extracomunitari il permesso di soggiorno in Italia.
Sono state sequestrate , però, anche le foto di un cittadino marocchino, Morchidi Kamal, e di un cittadino tunisino, Lagha Lofti Ben Suihi, i quali, secondo quanto riferito dalla Polizia Giudiziaria, erano stati, il primo, in un campo di addestramento in Kurdistan, e il secondo in un campo di addestramento in Afghanistan.
Dopo la suddetta perquisizione, si è ritenuto opportuno disporre un'intercettazione delle conversazioni nell'autovettura in uso all'imputato (una Renault targata CG 832 LS), e il 20.11.2003 , alle ore 12,28, è stata intercettata la seguente conversazione di Toumi con un tunisino di nome Adel (non meglio identificato): Adel dice di non voler andare in Tunisia per ottenere un documento che gli serve per celebrare il suo matrimonio; Toumi approva, dicendo che anche lui per tanti anni non era andato in Tunisia, "quando sono tornato ho fatto un mese e mezzo di galera"; poi Toumi chiede ad Adel se conosce Habib Sekseka e lo informa che il predetto era morto martire; T oumi aggiunge che con questa storia (di Habib Sekseka) loro (la Polizia) "mi stanno stressando e rompendo la testa" e, da ultimo, "mi hanno attaccato a casa" (si riferisce evidentemente alla perquisizione subita pochi giorni prima); Toumi, riferendosi poi a quelli che erano morti martiri, dice "loro sono sulla strada giusta, siamo noi sulla strada ingiusta".
In sede di convalida del fermo davanti al GIP di Milano (in data 25.11.2003) e poi nell'interrogatorio davanti al P.M. in data 27.11.2003, Toumi Alì ha dichiarato di aver conosciuto Mera'j, che aveva incontrato nella Moschea di Viale Jenner, tra la fine del 2001 e l'inizio del 2002; ha ammesso di averlo aiutato, procurandogli una (falsa) assunzione di lavoro, ad ottenere il permesso di soggiorno in Italia; ha negato che gli appartenesse la foto di Morchidi Kamal, un marocchino che peraltro aveva conosciuto, in quanto la stessa era stata ritrovata nel marsupio di suo fratello Habib, che era partito pe r la Francia; ha ammesso, invece, di aver avuto la foto di Lofti Lagha; questi era suo cugino e, solo nel gennaio 2003, egli aveva saputo che era detenuto a Guantanamo; ha inoltre dichiarato che Bouyahia Maher, prima di andare in Turchia, aveva lasciato le chiavi del suo appartamento a un certo Fouad; e a proposito dell'intercettazione ambientale del 20.11.2003, ha dichiarato che la persona di cui aveva parlato (non con Adel ma con una donna di nome Aicha, che era con lui in auto) si identificava in Habib Waddani, persona che era deceduta in guerra nel luglio 2003.
Successivamente, davanti al GUP in data 9.12.2004, Toumi Alì ha ammesso di aver utilizzato la cooperativa di cui era presidente per rilasciare false attestazioni, ammissione che ha ribadito davanti a questa Corte.
La pubblica Accusa - sulla base dei suddetti elementi di prova a carico degli imputati, ma valorizzando anche una serie di altri elementi che si riferiscono al contesto generale in cui gli imputati hanno agito - ha chiesto la condanna di Daki Mohamed, Bouyahia Maher e Toumi Alì per la partecipazione dei predetti all'associazione con finalità di terrorismo internazionale di cui al capo 1.
Ritiene questa Corte che, alla stregua delle considerazioni già ampiamente svolte nell'esaminare gli elementi specifici a carico dei predetti imputati, sia provato che Bouyahia Maher e Toumi Alì hanno per un certo tempo (segnatamente nei mesi di febbraio e marzo 2003) collaborato con Mera'j (il quale faceva riferimento al Mullah Fouad in Siria) nell'attività più volte menzionata (aiutare volontari musulmani a trasferirsi dall'Europa in Iraq per andare a combattere contro gli americani, munendoli di documenti d'identità falsi che ne avrebbero favorito lo spostamento), ma che non vi siano elementi per affermare che questa attività fosse finalizzata anche al compimento di attentati terroristici (sia perc hé è certo che i volontari sono partiti dall'Europa in Iraq per andare effettivamente a combattere contro quelli che consideravano gli invasori, sia perché azioni terroristiche vere e proprie sono comparse in Iraq solo alcuni mesi dopo i fatti di causa, in una situazione che era profondamente mutata, perché era intervenuta la sconfitta militare ed era in corso l'occupazione), e comunque manca la prova che gli imputati fossero consapevoli della predetta finalità.
Diversa è, invece, la posizione di Daki Mohamed che, per quanto già si è osservato esaminando la sua posizione, è stato solo occasionalmente coinvolto nell'attività in discorso e, pur condividendo le ragioni per le quali un musulmano doveva andare in Iraq a combattere, non si è neppure prestato a dare la collaborazione (cedere il suo passaporto a Ciise) di cui era stato richiesto.
Prendendo, ora, in considerazione gli elementi "di contesto" che sono stati posti a carico degli imputati, risulterà evidente che le persone e i fatti indicati dall'Accusa non possono valere come prove a carico degli odierni imputati, per la semplice ragione che non risulta in alcun modo che gli stessi siano stati coinvolti nei medesimi fatti o abbiano avuto rapporti con le persone indicate; senza peraltro considerare che alcuni degli elementi "di contesto" appaiono di tale genericità, da poter essere utili solo per inquadrare, da un punto di vista storico, il fenomeno del terrorismo di matrice islamica, ma non per definire la posizione di un imputato.
In primo luogo, non è possibile collegare gli imputati del presente processo ai fatti oggetto delle inchieste condotte dalla Procura della Repubblica di Milano (c.d. inchieste Al Muhajirun e Bazar) i cui risultati sono stati sintetizzati nella prima parte dei motivi d'appello del Pubblico Ministero.
All'epoca, Daki Mohamed e Bouyahia Maher non vivevano neppure in Italia e non risuta che abbiano avuto alcun tipo di collegamento con le attività illecite in cui sono state coinvolte le persone poi accusate nei procedimenti penali scaturiti da dette inchieste. Non può, in particolare, essere considerato un elemento significativo di collegamento, ai fini del coinvolgimento in attività con finalità di terrorismo (peraltro non accertate con sentenze passate in giudicato), il solo fatto che Bouyahia Maher si sia attivato per procurare documenti falsi a F'radi il Libico, con il quale non risulta che abbia avuto altro tipo di rapporto oltre quello predetto.
Anche Toumi Alì, benché all'epoca delle suddette inchieste vivesse a Milano, non risulta in alcun modo coinvolto nei fatti di cui alle stesse inchieste, e anzi si deve ritenere, alla luce di tutti gli elementi raccolti, che fosse piuttosto interessato a lucrose attività criminali comuni, che nulla avevano a che fare con l'attività terroristica.
Nello sp ecifico, Non risulta che gli odierni imputati - nel periodo che hanno trascorso in Italia - abbiano avuto un qualsiasi rapporto con il c.d. gruppo di Cremona (Trabelsi Mourad, Hamraoui Kamel Ben Mouldi e Drissi Nourredine), con il c.d. gruppo di Parma (Mohammed Amin Mostafà, Mohammed Tahir Hammid e Muhamad Majid), con Abu Omar (che viveva a Milano), figura senza dubbio centrale nelle indagini condotte dalla Procura di Milano, e, in genere, con persone in qualche modo sospettate di essere implicate in vario modo nell'attività di natura terroristica oggetto delle indagini.
Il legame degli imputati con l'associazione è costituito, in buona sostanza, dal solo rapporto intrattenuto con Mera'j e con le persone allo stesso legate nello svolgimento dell'attività più volte menzionata, rapporto che è stato già ampiamente preso in esame e sul quale sarà necessario ancora tornare per definire la posizione degli imputati.
Ma allora devono essere considerati elementi di prova sostanzialmente inconferenti, per valutare la posizione degli odierni imputati, tutta una serie di fatti indicati dalla Pubblica Accusa, ai quali gli imputati non hanno in alcun modo partecipato, non risultando neppure che conoscessero le persone coinvolte nei predetti fatti.
Ci si riferisce, in particolare, a tutti gli elementi che riguardano Abu Omar (i rapporti che lo stesso ha intrattenuto con persone che, secondo il P.M. appellante, erano implicate in attività terroristiche; la citata conversazione del 15.6.2002 tra Abu Omar e uno sconosciuto proveniente dalla Germania; le citate conversazione del 7.4.2002 e dell'11.4.2002 tra Abu Omar e Bouyahia Hammadi - all'epoca di queste conversazioni, Bouyahia Maher era detenuto per droga in Francia -; la citata conversazione del 24.4.2002 tra Abu Omar e un egiziano; la citata conversazione del 6.6.2002 tra Abu Omar e un nordafricano proveniente da Roma; i documenti sequestra ti nell'abitazione di Abu Omar il 27.2.2003); al materiale sequestrato al c.d. gruppo di Parma nel corso della perquisizione del 31.3.2003; a Lokman Amin Mohammed e Bamarni Adnar Omed, coinvolti nell'invio di denaro dalla Germania in Medio Oriente; alle vicende del c.d. gruppo di Cremona; alle dichiarazioni del collaboratore Zouaui Chokri, che nessun rapporto ha avuto con gli imputati e mai si è a loro riferito; alle dichiarazioni di Mohammed Tahir Hammid, che mai ha fatto riferimento agli imputati del presente processo, persone che neppure conosceva; a tutti gli altri elementi indicati nei motivi d'appello del Pubblico Ministero, relativi al fenomeno del terrorismo di matrice islamica, ma non riferibili in termini specifici agli imputati.
E', invece, necessario impostare un discorso più articolato, con riguardo alle attività del gruppo Ansar al Islam, poiché dalle emergenze probatorie si evince che i volontari che provenivano dall'Europa erano inviati in campi di addestramento gestiti anche dalla suddetta organizzazione, che secondo la Pubblica Accusa deve essere considerata un'organizzazione terroristica.
Preliminarmente, accogliendo lo specifico motivo d'appello del Pubblico Ministero, si debbono considerare utilizzabili le audizioni compiute in Iraq dalla Polizia Giudiziaria Norvegese, nella parte in cui le persone interrogate (ex aderenti ad Ansar Al Islam) hanno riferito, senza le garanzie difensive che nel nostro ordinamento spettano all'indagato e all'imputato in procedimento connesso, su fatti commessi da altri, perché non è contrario ai principi fondamentali del nostro Ordinamento che un dichiarante sia sentito in veste di testimone (anche se responsabile di un reato connesso) sul fatto altrui.
E' opportuno riportare in sintesi le dichiarazioni in questione.
Khader Dedar Khadil, sentito in data 11 e 12 ottobre 2003, ha dichiarato di essere stato arrestato il 7.6.2002 ed ha indicato nel Mullah Krekar il capo di Ansar Al Islam, organizzazione alla quale aveva aderito per sei mesi. Il predetto Mullah aveva spinto aderenti di Ansar Al Islam a compiere attentati suicidi. Esso Khader era stato arrestato, quando si era presentato, con una cintura esplosiva indosso, al quartier generale del P.U.K. (Patriotic Union of Kurdistan) a Saisadik per uccidere il maggior numero possibile di soldati P.U.K., ma al posto di guardia aveva subito ammesso di avere con sé l'esplosivo ed era stato arrestato.
Alì Omed Abdullah, sentito il 12.10.2002, ha dichiarato di essere stato arrestato il 20.6.2002, perché aveva aiutato il suddetto Khader, indicandogli dove era il quartier generale del P.U.K.; egli non aveva fatto parte di Ansar Al Islam, ma del gruppo IGK (Islamic Group Kurdistan).
I poliziotti iracheni Barman Kadir Mohammed e Nuri Quadre Mjid (già appartenenti alle milizia del P.U.K), sentiti rispettivamente il 14.10.2003 e il 15.10.2003, hanno descritto in quali circostanze era stato arrestato Khader Dedar Khadil, che si era presentato davanti alla caserma e avrebbe voluto farsi esplodere all'interno della stessa.
Raza Sirwa Abdul, un ragazzo di sedici anni arrestato il 16.3.2002 ad un posto di blocco prima di Halabja in possesso di una bomba a mano, ha confessato che avrebbe dovuto lanciare la bomba contro persone che assistevano a una non precisata cerimonia; era entrato in Ansar Al Islam nel gennaio 2002 ed ha riferito che Mullah Krekar predicava che bisognava uccidere i non musulmani anche facendosi saltare in aria; le istruzioni per compiere l'attentato, però, gli erano state date da un suo cugino.
Alì Kewar Quadre, sentito in data 15.10.2003, ha dichiarato di essere stato arrestato il 14.9.2003; aveva sentito che Mullah Krekar cercava attentatori suicidi, ma egli non aveva mai visto istruire persone per q uesto genere di attentati; aveva saputo di uno che si era fatto saltare in aria ad un posto di blocco del P.U.K. (erano morti sei soldati e un civile); Ansaar Al Islam voleva prendere il potere in Kurdistan, combattendo contro i non musulmani; egli era diventato membro di Ansar Al Islam a sedici anni e in un video aveva spiegato perché era intenzionato a compiere un attentato suicida contro un campo militare.
Nel corso della rogatoria in Norvegia (che ha consentito di acquisire le suddette dichiarazioni rese alla Polizia norvegese, la quale stava acquisendo elementi nei confronti di Mullah Krekar nel procedimento pendente contro lo stesso in Norvegia) è stata acquisito anche il verbale d'interrogatorio reso, alla presenza del difensore, dallo stesso Mullah Krekar, le cui dichiarazioni sono state già sintetizzate nella parte espositiva della presente sentenza.
E' stata acquisita anche la documentazione sequestrata al predetto Mull ah al momento del suo arresto in Olanda in data 12.9.2002, dalla quale emerge il programma dell'organizzazione Ansar Al Islam, dallo stesso fondata il 10.12.2001.
Di notevole interesse, infine, sono le già riportate dichiarazioni di Thair Hammid, il quale - come si è avuto modo di osservare - ha progressivamente collaborato con gli inquirenti e, a proposito di Ansar Al Islam, ha dichiarato (in data 29.10.2003) che egli aveva fatto parte di Ansar Al Islam e che non riteneva che detta organizzazione svolgesse attività terroristica; aggiungendo, nell'interrogatorio del 5.2.2004, che egli in precedenza aveva fatto parte del Movimento Islamico Curdo, movimento che era confluito in Ansar Al Islam, e che nei campi di questa organizzazione ci si addestrava a compiere anche azioni di tipo terroristico, anche se questo fatto non risultava a lui personalmente, in quanto era stato sempre contrario a questo tipo di azioni.
Sulla base dei sudd etti elementi, ma anche di tutto il vasto materiale raccolto in atti su Ansar Al Islam, ritiene questa Corte che la suddetta organizzazione avesse ufficialmente la struttura di una vera e propria organizzazione combattente islamica, con propri campi di addestramento dove venivano istruiti i volontari all'uso delle armi ed a combattere, ma è assai probabile che all'interno della stessa organizzazione vi fossero consistenti frange favorevoli a praticare, almeno in certe situazioni, anche il terrorismo per raggiungere i risultati politici che l'organizzazione si proponeva.
Si deve, peraltro, osservare che le riportate dichiarazioni assunte dalla Polizia norvegese - oltre a non dare alcuna garanzia sulla loro spontaneità (perché rese da persone detenute in Iraq, accusate di terrorismo, che avevano un forte interesse, per salvaguardare se stesse ed acquisire meriti, ad accusare il capo e a mostrare di non aver più alcun legame con l'organizzazione) - si rifer iscono a episodi avvenuti in contesti del tutto diversi, anche temporalmente, dai fatti di cui al presente processo, perché si parla di episodi accaduti nella guerra interna che Ansar Al Islam aveva condotto nel Kurdistan contro il P.U.K., e non di quanto accadeva nei campi di addestramento, quando i volontari giunti da varie parti del mondo si preparavano a respingere quella che consideravano un'invasione di uno Stato arabo.
Anche le dichiarazioni di Mohammed Tahir Hammid debbono essere valutate con molta prudenza, sia per un "crescendo" che lascia alquanto perplessi, sia perché lo stesso era stato in campi di addestramento solo alcuni anni prima (nel 1999). Ma è comunque rilevante che il predetto, pur dichiarandosi aderente ad Ansar Al Islam, abbia fermamente sempre sostenuto di essere stato sempre contrario al terrorismo, a riprova che l'adesione ad Ansar Al Islam non può certo essere equiparata a un'adesione al metodo terroristico.
Venendo ora alla posizione degli imputati del presente processo, rispetto alla suddetta organizzazione, si deve innanzi tutto osservare che da nessun elemento risulta che gli stessi abbiano mai avuto a che fare con Ansar Al Islam. Neppure Mera'j, secondo quanto ha dichiarato il predetto collaboratore, era un aderente ad Ansar Al Islam (ha però aggiunto che Mera'j si stava "avvicinando" a questa organizzazione). Secondo Tahir Hammid, Mullah Fouad, invece, avrebbe militato nelle file di Ansar Al Islam, ma sul punto è contraddetto dall'iracheno Lokman Mohammed Amin, il quale, nel corso della rogatoria in Germania, ha precisato che il predetto era invece inserito nel movimento islamico Haraka Al Islami.
A ben vedere, però, non è importante accertare, nel presente processo, se e quanto Mullah Fouad e Mera'j fossero inseriti in questa o quella organizzazione islamica, ma è decisivo verificare in che modo i predetti si siano presentati agli o dierni imputati; quali rapporti siano intercorsi tra loro e, infine, se vi siano elementi per ritenere che Daki Mohamed, Bouyahia Maher e Toumi Alì fossero coinvolti - con Mera'j e Mullah Fouad ovvero anche con altri - nella preparazione delle attività terroristiche.
Un primo punto da fissare, già più volte ribadito, è che l'instradamento di volontari verso l'Iraq, per combattere contro gli americani, non può essere considerato sotto alcun aspetto un'attività terroristica.
Certo l'Italia, per molte e buone ragioni, non poteva assolutamente tollerare che una siffatta attività si svolgesse sul suo territorio, tanto più che veniva realizzata compiendo una serie di delitti (falsificazione di documenti e procurato ingresso illegale in altri Stati), e questo spiega perché le persone di cui trattasi abbiano usato una serie di accortezze e precauzioni nei contatti tra di loro.
Si è anche visto - ma è riconosciuto anche dalla Pubblica Accusa - che effettivamente Mera'j e Mullah Fouad, nel periodo in cui hanno avuto contatti con gli imputati, erano molto impegnati nel far affluire volontari in Siria che dovevano essere addestrati a combattere contro gli americani.
Il Pubblico Ministero appellante sostiene però che, parallelamente alla suddetta attività, era in preparazione anche un'attività terroristica. Della partecipazione a questa attività - ed è questo il punto - avrebbe però dovuto dare specifiche prove a carico degli odierni imputati, non potendo bastare un semplice richiamo all'intensa attività terroristica che - in tempi successivi - vi è stata in Iraq (ma si è già osservato che l'attività terroristica in Iraq si è sviluppata in un contesto diverso da quello in cui avevano agito gli imputati, avendo costoro agito proprio nel periodo immediatamente antecedente all'intervento degli Stati Uniti e durante i primi giorni di guerra).
Sott o altro aspetto, si deve osservare che - anche volendo ipotizzare che Mera'j e Mullah Fouad svolgessero, parallelamente all'attività sopra descritta, anche altre attività di natura terroristica - non vi sono elementi per ritenere, analizzando i rapporti che hanno intrattenuto con gli imputati, che li avessero coinvolti in queste attività.
Per Daki si è già detto che lo stesso ha avuto con Mera'j un rapporto del tutto occasionale, e non è risultato in alcun modo che il predetto imputato sia stato in qualche modo coinvolto in attività terroristiche con Abderrazak o con altri.
Per Maher e Toumi, non risulta affatto che gli stessi conoscessero da lungo tempo Mera'j e Mullah Fouad (a ben vedere, non c'è neppure la prova che Toumi conoscesse Mullah Fouad); non erano, sotto certi aspetti, persone del tutto affidabili, proprio perché implicati in attività criminali (e quindi oggetto di possibili attenzioni da parte della Polizia); non risu ltano neppure connotati dalle intransigenze dell'integralismo islamico.
Le intercettazioni relative agli imputati, già analiticamente esaminate, hanno consentito di mostrare quale fosse l'effettivo rapporto che gli stessi hanno intrattenuto con Mera'j - che era il loro referente nell'attività più volte descritta - e in queste conversazioni non c'è neppure l'ombra di una qualsiasi attività di natura terroristica.
Una riprova dell'estraneità degli imputati a contesti terroristici è data dal loro comportamento successivamente ai fatti di causa.
Daki, dopo che erano stati arrestati quelli che, secondo l'Accusa, sarebbero stati i suoi complici, non è neppure scappato, sapendo di non aver in alcun modo collaborato con loro.
Maher, dopo l'arresto di Mera'j, si è rivolto a Bentiwaa, sua vecchia amica d'infanzia, per procurarsi documenti falsi, chiedendole di interessare il di lei fratel lo, il quale non risulta essere in alcun modo implicato in attività terroristiche (era invece dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti).
Toumi, con l'arresto di Mera'j, per quel che risulta (essendo all'epoca sotto stretta osservazione) ha cessato ogni "attività sospetta", pur continuando a svolgere attività redditizie e illecite tramite la cooperativa che presiedeva.
Pertanto, deve essere respinta la richiesta della Pubblica Accusa di condannare gli imputati per il delitto di cui al capo 1.
Daki Mohamed deve essere assolto da tutti i delitti ascrittigli, perché non risulta in alcun modo che abbia partecipato all'attività nella quale erano coinvolti gli altri due imputati, insieme a Mera'j ed altri, e perché non si può ritenere - come ha ritenuto il primo giudice - che fosse "uno specialista" nella falsificazione di documenti; senza considerare, peraltro, che nel nostro Ordi namento si può condannare un imputato solo per fatti specifici, non essendo prevista la c.d. colpa d'autore.
E Daki Mohamed non risulta implicato in alcun fatto di ricettazione di documenti, mentre la consegna (che non vi è stata) del suo passaporto ad altri, al fine di falsificarlo, avrebbe integrato solo un'ipotesi di concorso nella falsificazione del predetto documento e non certo un'ipotesi di ricettazione.
Diversa, invece, è la posizione di Bouyahia Maher e Toumi Alì, perché è risultato che i predetti hanno effettivamente collaborato stabilmente con Mera'j (e con altri) in un'attività che comportava la commissione di delitti di falsificazione di documenti d'identità e di delitti di procurato ingresso illegale (mediante i suddetti documenti falsificati) dei volontari in Stati d'Europa ed extraeuropei.
La suddetta attività si è svolta in termini che integrano il delitto di associazione per delinquere di cui all'art. 416 C.P., poiché è stata commessa da più di tre persone che avevano la finalità di compiere una serie indeterminata di delitti sopra indicati (per favorire l'invio di volontari in Iraq); in stabile collegamento tra loro (l'attività si è interrotta solo per l'intervenuto arresto di componenti del gruppo); con la predisposizione di mezzi per realizzarla, come si deduce dal tenore delle conversazioni intercettate.
Il fatto di cui sopra è stato contestato ai predetti imputati nel capo 1 dell'imputazione, e quindi il delitto indicato in questo capo può essere derubricato nel delitto di associazione per delinquere di cui all'art. 416 C.P.. Deve, però, essere precisata la data del commesso delitto, indicando l'effettivo periodo (febbraio-marzo 2003) in cui risulta che gli imputati hanno partecipato all'associazione.
Oltre che per il predetto delitto, Bouyahia Maher e Toumi Alì sono responsabili anche del delitto di cui al capo 3 (limitatamente al periodo sopra indicato), perché hanno all'evidenza favorito, compiendo l'attività a cui erano dediti, l'ingresso illegale e il passaggio dei volontari in diversi Stati, munendoli di documenti d'identità falsi.
Nel delitto in questione (come modificato dalla legge 30.7.2002 n. 189) non vi è la limitazione ai soli Stati membri della Comunità Europea, e quindi la fattispecie prevista ( in violazione della normativa di cui al decreto legislativo 286/1998, compimento di atti diretti a procurare l'ingresso nel territorio dello Stato di uno straniero ovvero "atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente) è applicabile anche ai fatti riguardanti l'ingresso in Stati diversi da quelli europei.
A Bouyahia Maher e a Toumi Alì non possono essere riconosciute le attenuanti generiche, in considerazione della gravità dei delitti co mmessi, desumibile in particolare dai mezzi utilizzati per compierli, e, soprattutto, in considerazione della pericolosità sociale dimostrata, essendo risultati entrambi capaci di compiere anche altre gravi attività criminali.
Avuto riguardo a quanto sopra, e agli altri criteri di cui all'art. 133 C.P., si stima conforme a giustizia rideterminare la pena per ciascuno dei suddetti imputati in anni tre di reclusione ed euro 14.000,00 di multa (pena base per il delitto di cui al capo 3, che prevede la pena più grave, anni 4, mesi 3 di reclusione ed euro 20.000,00 di multa, aumentata per il delitto di associazione per delinquere di mesi 3 ed euro 1.000,00, ridotta di 1/3 per la scelta del rito abbreviato).
Bouyahia Maher e Toumi Alì devono, invece, essere assolti dal delitto di ricettazione di cui al capo 2, perché non risulta in alcun modo che, per formare documenti falsi da consegnare ai volontari, abbiano utilizzato documenti o cose provenienti da altri delitti. Nel suddetto capo di imputazione si menzionano solo i documenti intestati a Mokrani Hakim, rinvenuti nel corso della perquisizione nei confronti di Bentiwaa, ma è di tutta evidenza che detti documenti riguardavano solo il fratello della predetta e non gli imputati.
P.Q.M.
Visto l'art. 605 C.P.P.
In parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Milano in data 24.1.2005, appellata dal Pubblico Ministero, da Bouyahia Maher Ben Abdelaziz, da Toumi Alì Ben Sassi e da Daki Mohamed assolve Daki Mohamed dal delitto di cui al capo 1 per non aver commesso il fatto e dal delitto di ricettazione di cui al capo 2 perché il fatto non sussiste.
Dichiara Bouyahia Maher e Toumi Alì responsabili del delitto di cui all'art. 416 C.P., per essersi associati tra loro e con El Ayashi Radi (Mera'j), Muhamed Majid (Mullah Fouad) ed altri, allo scopo di co mmettere più delitti di falsificazione di documenti d'identità e di procurato ingresso illegale in Stati d'Europa ed extraeuropei di persone che non erano cittadini dei suddetti Stati o non avevano titolo di residenza permanente - nel febbraio e marzo 2003 - così modificata l'imputazione di cui al capo 1 della rubrica; nonché del delitto di cui al capo 3 della rubrica, reato commesso nei mesi di febbraio e marzo 2003, e con la già ritenuta continuazione condanna ciascuno dei predetti imputati alla pena di anni tre di reclusione ed euro 14.000,00 di multa.
Assolve Bouyahia Maher e Toumi Alì dal delitto di ricettazione di cui al capo 2 perché il fatto non sussiste,
Conferma nel resto.
Respinge l'istanza di arresti domiciliari avanzata da Toumi Alì, in considerazione della pericolosità dello stesso, desunta dall'inserimento in gruppo dedito ai delitti di cui alla suddetta associazione e dalla pericolosa attivi tà delittuosa compiuta nell'ambito della cooperativa di cui era responsabile.
Indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione della sentenza.
Milano, 28 novembre 2005
Il Consigliere estensore Il Presidente
L.P. Caiazzo S. Belfiore