ALTRI IN "GIUSTIZIA"
 
 
 Dibattito sul decreto Bersani

Pubblicato da Redazione 13-07-2006 09:35
 

Abolizione deli minimi tariffari, introduzione del patto quota lite, possibilità di effettuare pubblicità autoelogiativa, apertura a società interdisciplinari di professionisti. Il decreto Bersani trova un forte dissenso nell'avvocatura, ma apre anche il dibattito al suo interno sulle modifiche comunque necessarie all'attuale sistema di norme.

Apriamo qui una finestra per il dibattito, segnalando che tutti gli interventi sono fatti a titolo personale e non rappresentano, dunque, la posizione dell'Associazione (che può essere consultata nella sezione "Comunicati")

Intervento dell'avv. Raffaele Miraglia - Bologna

Il decreto legge 223/06 prevede all'art. 2, "al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato", l'abrogazione delle norme che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:
a) tariffe obbligatorie fisse o minime e il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli scopi perseguiti;
b) il divieto, anche parziale, di pubblicità;
c) il divieto di fornire, attraverso società o associazioni, servizi professionali interdisciplinari.

Questa norma ha scatenato la protesta di molte categorie di libero professionisti e, in particolare, degli avvocati.
A prescindere dal fatto che un intervento del genere effettuato per decreto legge crea molte perplessità anche sotto il profilo della sua costituzionalità, quel che ci deve interessare è se le misure adottate rispondano al fine che intenderebbero perseguire.
Alcune delle cose che vado a scrivere suoneranno di certo fortemente provocatorie.

Sulle tariffe minime.
La necessità di un tariffario tendenzialmente inderogabile tra un minimo e un massimo è sempre stata difesa dagli avvocati soprattutto con due argomentazioni: consente che i professionisti si facciano concorrenza fra loro non sul costo, ma sulla qualità, e prevede soglie minime di pagamenti consoni alla dignità della professione svolta, senza che con ciò il cliente venga vessato da costi troppo onerosi. Entrambe le argomentazioni sono false e classiste. Entrambe sono in palese contrasto con l'attuale realtà.
La categoria degli avvocati, cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi anni, è sempre più variegata al suo interno, a tal punto che ormai da tempo esiste anche, assolutamente non regolata ed anzi formalmente vietata, la figura dell'avvocato di fatto dipendente da altro o altri avvocati. Questa diversificazione si riverbera nell'applicazione o meno delle tariffe forensi.
Mentre alcuni avvocati lavorano normalmente (e senza che ciò suoni scandaloso all'occhio del cliente) oltre il massimo tariffario, la stragrande maggioranza degli avvocati applica spessissimo tariffe inferiori ai minimi. In alcune zone del paese o in alcuni settori del diritto questa è la pratica quotidiana necessitata sia dal fatto che i clienti non sarebbero in grado di sopportare i costi, sia dalla concorrenza che esiste fra avvocati. E' significativo che molti avvocati nel penale, per esempio, preferiscano spesso un gratuito patrocinio a un cliente formalmente abbiente, ma che pagherebbe meno delle pur striminzite note liquidate dai Giudici.
In questa situazione l'abolizione tout court della tariffa minima paradossalmente innesca fenomeni contrari agli interessi del piccolo e medio cliente e superfavorisce il cliente forte.
Nei confronti del cliente piccolo e medio l'avvocato che chiedeva un compenso inferiore alla tariffa minima lo faceva a voce e, se il pagamento arrivava nella misura pattuita, di questo si accontentava. Se non veniva pagato, azionava la propria tutela facendo riferimento quanto meno ai minimi tariffari. Oggi l'avvocato, per tutelare i propri interessi, sarà costretto a far firmare al cliente un accordo sulla tariffa da applicare e, ovviamente, finirà per far firmare patti più remunerativi (magari senza che il cliente se ne renda effettivamente conto). Teniamo presente che, a differenza di altre professioni, per l'avvocato è in genere impossibile - specie per l'attività giudiziale - effettuare un preventivo reale, tante sono le variabili che possono accadere.
Diversamente il cliente forte (penso soprattutto a banche, assicurazioni, imprese di grandi e medie dimensioni) che già prima imponeva all'avvocato di lavorare ai minimi tariffari nelle pratiche giudiziali, imporrà ora di lavorare con tariffe ancora più basse.
Ovviamente tra i clienti forti vanno annoverati anche i grandi e piccoli studi legali che ora potranno senza più alcuna remora assumere avvocati di fatto dipendenti (pratica già consolidata da tempo).
Che il cliente che ha a cuore una certa parte dell'Unione sia il cliente forte lo si può dedurre sia leggendo la parte del programma Prodi intitolata "le politiche per la concorrenza" (una delle quattro ragioni - sottolineo "quattro" - individuate per giustificare la prospettiva di riforma delle professioni è: "in Italia i servizi professionali hanno un'incidenza sul valore della produzione dei settori esportatori di circa il 6%"), sia la norma che riduce i compensi agli arbitri nei giudizi arbitrali rituali.

L'abolizione della tariffa minima, tra l'altro, adottata senza modificare le norme sulla liquidazione giudiziale delle spese e sul patrocinio a spese dello Stato, nel primo caso affida una totale arbitrarietà al giudice e nel secondo caso fa sì che il giudice dovrebbe tendenzialmente applicare per ogni voce della tariffa la media tra il massimo e 0,01 euro!!!!

Dulcis in fundo, il decreto Bersani contraddice sul punto quanto era scritto nel programma Prodi. Vedi nel settore giustizia "prevedere un sistema di tariffe che siano ad un tempo garanzia per il cittadino, tutela della dignità della professione, incentivi alla soluzione rapida (giudiziale e stragiudiziale) del contenzioso e disincentivi all'ingiustificato differimento delle udienze". Vedi nel settore economia "abolire le tariffe minime, tranne casi limitati alle attività riservate, e il divieto di pubblicità e di informazione al pubblico").
Va infine sfatato un mito: anche nelle direttive europee è previsto che gli Stati possano prevedere un minimo tariffario per certe professioni.

Sul patto di quota lite
Tra gli avvocati viene così chiamato il "compenso parametrato al raggiungimento degli scopi perseguiti". In genere il patto prevede che all'avvocato vada una certa percentuale della somma ricavata dal cliente, ma può consistere - quando in gioco non è un valore economico predeterminabile - anche nell'accordo che, se viene raggiunto un certo risultato, il cliente è tenuto ad effettuare un pagamento superiore.
Questi patti sono stati fin'ora vietatissimi e ciò, si è sempre detto, per favorire il cliente. Ampie violazioni di questo divieto si registrano, purtroppo, soprattutto nei confronti di soggetti "deboli" (per esempio, è voce diffusa che ciò si verifichi in certe zone geografiche puntualmente nelle cause per invalidità). Un temperamento al divieto, peraltro, è rinvenibile nelle stessa tariffario dell'avvocatura, lì dove si prevede che nel fare la nota al cliente "può essere tenuto conto dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti" (rimanendo, però, entro i limiti massimi).
Il venir meno del divieto del patto di quota lite non solo non favorisce il cliente dell'avvocato, ma snatura la professionalità di quest'ultimo.
Il fatto che al raggiungimento di un certo risultato l'avvocato possa ottenere un guadagno maggiore, da un lato favorisce autentiche truffe nei confronti del cliente e dall'altro rende il legale troppo interessato al risultato economico finale (con la conseguenza, tra l'altro, di rendere più difficile in molte controversie il raggiungimento di una conciliazione oppure, al contrario, di rendere arrendevole la difesa lì dove l'avvocato decida di preferire i "pochi, maledetti e subito" a fronte dell'incertezza del compenso finale).
Questo genere di patto, poi, trasforma l'avvocato da un professionista che ha l'obbligo di predisporre ogni più idoneo mezzo al raggiungimento di un risultato favorevole al cliente ad un professionista che ha l'obbligo di raggiungere un certo risultato, il chè fa la sua bella differenza. E' come se il medico venisse pagato solo se il cliente guarisce.


Sulla pubblicità
Attualmente per gli avvocati esiste un divieto parziale di pubblicizzare "i titoli e le specializzazioni professionali e le caratteristiche del servizio offerto" e un divieto totale di pubblicizzare "il prezzo delle prestazioni". Ora questi divieti vengono meno.
La perentorietà contenuta nel decreto legge nel vietare ogni divieto, fa sì che oggi l'avvocato possa effettuare una pubblicità elogiativa e, magari, comparativa, e farlo con ogni mezzo, dal volantino allo spot televisivo.
Sappiamo che per sua natura la pubblicità non è un mezzo per informare il potenziale cliente, ma un mezzo per attrarlo. L'introduzione della pubblicità tra i professionisti non è, dunque, una misura per la tutela del "consumatore", sul quale ovviamente, alla fine, ricadranno i costi sostenuti per effettuare lo spot.

Sulle società professionale interdisciplinari
Il venir meno del divieto che un avvocato si associ con professionisti abilitati ad esercitare in altri settori professionali non desta di per sè preoccupazioni. Che si apra uno studio associato dove sono riuniti avvocati, commercialisti, notai, ecc. pare persino naturale oggi.
Il limite del decreto legge, però, è la mancata regolamentazione di queste società o associazioni, perchè anche queste strutture possono rivelarsi estremamente pericolose per il cliente, ove siano libere di agire in qualsivoglia modo.


Oltre il decreto legge
Che l'attuale regolamentazione delle tariffe legali sia da modificare mi pare una necessità perchè essa è attualmente in gran parte una finzione. La soluzione scelta dal governo, però, non apporta un miglioramento né per gli avvocati, né per i loro clienti. Essa dà una risposta solo agli interessi di alcuni forti poteri economici.
Difficilmente potrà trovarsi una risposta equilibrata senza prima affrontare la riforma della professione. Pensando a determinate entità economiche, bisogna dire che se all'attuale possibilità di avere un ufficio legale interno, si affiancasse la possibilità di avere avvocati dipendenti che possano agire in giudizio esclusivamente in favore del proprio datore di lavoro (come già oggi avviene per alcuni enti, banche e s.p.a.), si risolverebbero in gran parte gli unici problemi a cui oggi il decreto Bersani vuole realmente rispondere. Questa soluzione mi sembra ben più appropriata che l'abolizione del minimo e non la trovo scandalosa. Così come non trovo scandaloso che un avvocato o una società di avvocati possa assumere come dipendente un altro avvocato, purché il rapporto di lavoro sia chiaramente e adeguatamente regolato e non mistificato dalle attuali finzioni. Farsi scudo della figura ottocentesca dell'avvocato sempre e comunque libero professionista giova solo a chi tra gli avvocati ha una rendita di posizione da difendere.
Qualcuno giustamente dirà che non è possibile, però, continuare con la finzione attuale sino a quando non verrà riformata la professione.
Se si vuole prima ratificare la realtà esistente e abolire il trasgredito divieto di applicare tariffe inferiori al minimo (pratica già oggi peraltro possibile, previo consenso del Consiglio dell'Ordine), si devono comunque prevedere dei correttivi.
Innanzitutto prevedere delle tariffe di riferimento ai cui i giudici debbono attenersi nella liquidazione delle spese giudiziali. Poi prevedere comunque una certa regolamentazione dei patti fra clienti e avvocati, mantenendo il divieto del "quota lite" e garantendo il cliente da clausole "oscure". Infine salvaguardare l'avvocato dal cliente "forte", quello che per dimensioni economiche e potenziale litigiosità è in grado di imporre al mercato i propri prezzi.

Riflessioni dell'avv. Elena Donzi - Padova

Pubblicato da Redazione 13-07-2006 09:46

L'abolizione delle tariffe forense, del divieto del patto di quota lite,del divieto di pubblicità e del divieto di società "miste"contenuto nel decreto-legge 223/ 2006 è grave e preoccupante. Il consiglio nazionale forense mette giustamente in luce come l'abolizione della tariffa non sia in realtà un provvedimento favorevole all'incremento benefico della concorrenza, ma piuttosto qualcosa che travolge i fondamenti della professione forense e comunque introduce misure che prevedibilmente porteranno, così come già accaduto nel regno unito, a seguito della liberalizzazione delle tariffe forense, ad un pregiudizievole innalzamento dei costi della giustizia.
Come è stato più volte riconosciuto anche dalla corte di giustizia della comunità europea, cui puoi la nostra cassazione si è già più volte adeguata, l'emanazione della tariffa forense in Italia, con determinazione di limiti minimi e massimi, non comporta alcuna violazione della normativa comunitaria in tema di concorrenza,poiché essa viene adottata mediante approvazione e controllo da parte di organi pubblici, conservando quindi i caratteri della normativa statale. Il consiglio nazionale forense italiano non agisce come organo di imprenditori vietato dalle norme comunitarie, poiché esso non si preoccupa di tutelare interessi corporativi, ma fissa le tariffe in funzione di considerazioni di interesse generale.
Nell'esperienza professionale ciascuno di noi che abbia lavorato onestamente si è potuto rendere conto di come, nell'applicare rigidamente la tariffa professionale, sia stato garantito al meglio l'interesse del cliente nel vedere che solo le attività meritevoli di considerazione, in quanto previste appunto dalla tariffa, ricevono una valutazione economica e si traducono in un compenso per l'avvocato, mentre ne restano escluse altre che pure potrebbero avere un costo, ad esempio quando si applicasse una tariffa oraria per la prestazione, come, ad esempio, le telefonate nelle pratiche giudiziali o l'indennità di attesa nelle cause civili, ed anche quelle che sono previste tra i diritti, e quindi fondamentalmente a titolo di rimborso spese, proprio per la loro quantificazione fissa impediscono una lievitazione di costi che sicuramente si avrebbe, tenendo conto anche soltanto del passare del tempo - si pensi ad esempio ai diritti di disamina della domanda o alla voce posizione e archivio.
L'abolizione del divieto di compensi proporzionali al valore della causa può sembrare sensato nell'ottica del decreto-legge solo con riferimento alle cause di minor valore, nelle quali, anche in base alla tariffa, ma non solo, spesso il valore della parcella è superiore a quello della causa. Ma chi farà più, senza la tariffa, le cause di minor valore davanti al giudice di pace, ad esempio, se il compenso dovrà essere proporzionale al valore della causa? Può far gola invece,, e tanto più ai grandi studi, il compenso proporzionato al valore delle controversie di valore elevato, perché ora come ora la tariffa, non essendo proporzionale, non assicura all'avvocato un guadagno in percentuale del guadagno del cliente. Ma che succederà poi delle cause perse? Bisognerà forse fare come certi avvocati lavoristi, che, nel mucchio delle cause vinte e perse, vivono sui grossi compensi derivanti dalle cause più fortunate e considerano solo costi, se non addirittura investimenti strumentali, la gestione delle cause minori o delle cause perse. Tutto questo ci porta verso scenari all'americana che nulla hanno a che vedere con la garanzia del diritto alla difesa riconosciuto dalla costituzione, meno ancora con la trasparenza del mercato libero, e dimenticano del tutto l'interesse del cliente.
La pubblicità degli avvocati possiamo facilmente immaginarcela. Un caso emblematico è stato deciso dalla cassazione a sezioni unite con decisione 23 marzo 2005, n. 6213, divertente questione da baruffe chiozzotte. Secondo il nostro legislatore potremo metterci al gate delle aeroporti, come fanno negli Stati Uniti,ad attendere i passeggeri all'uscita dal controllo doganale e distribuire i biglietti da visita garantendo elevati risarcimenti a coloro che sono stati perquisiti con ispezione corporale..... La contraddittorietà delle disposizioni di legge introdotte con i principi enunciati anche testualmente nell'articolo primo del decreto-legge è di palmare evidenza. Purtroppo però i mass-media non ne sanno dare adeguata comunicazione nell'ambito dell'informazione. Anche in questo caso l'informazione non tocca e non disturba interessi delle grandi imprese e dei potentati economici. Il riferimento è anche alla disposizione che consente la formazione di società di professionisti di tipo interdisciplinare. Anche qui la corte di giustizia della comunità europea è arrivata prima, decidendo negativamente il caso della Arthur Andersen, che, in Olanda, avrebbe voluto costituire una società mista tra revisori dei conti e avvocati. E ancora a tal proposito non possiamo dimenticare che quei grossi studi dai nomi altisonanti che in Italia già cominciano ad insediarsi in varie città non sono vere e società tra professionisti, ma sono società che pagano professionisti, che liberi non solo, come dipendenti. Anche su questo il legislatore mente, facendosi portatore di interessi economici forti: finge di introdurre norme che dovrebbero consentire un più facile inserimento dei giovani nella professione con la creazione di nuovi posti di lavoro, ma continua nel solco già tracciato dal governo precedente, che ai giovani ha garantito solo molto precariato e bassi stipendi.
È giusto quindi che la nostra associazione prenda una posizione chiara contro l'introduzione di queste riforme. A dimostrazione del fatto che non sono interessi corporativi a spingerci ad una tale prese di posizione, occorre sottolineare che il decreto-legge introduce forti aumenti delle spese di giustizia anche per ciò che riguarda il contributo unificato. Innanzitutto per quello che riguarda i procedimenti amministrativi, con l'introduzione della spesa fissa di € 500 per qualsiasi causa, in totale contraddizione e con l'idea sottesa alla riforma del testo unico delle spese di giustizia, che è introdotto un costo proporzionale a seconda del valore della causa, e con il principio stesso dell'articolo 24 Cost., ma anche con la più sottile e subdola previsione introdotta al comma quinto dell'articolo 21 di porre le sanzioni per l'omesso parziale pagamento del contributo unificato a carico dei difensori. Ciò comporterà infatti, che, per porsi al riparo da responsabilità diretta, tutti gli avvocati si uniformeranno alle circolari del ministero della giustizia con cui si è imposto il pagamento del contributo unificato in misura corrispondente al valore dei beni oggetto di controversia anche nelle cause fino a ieri considerate di valore indeterminato e relazione alla pluralità di domande proposte, ad esempio nelle case di successione o di divisione. Tutto questo infatti non c'entra nulla con il mercato e la concorrenza, ma mira semplicemente ad aumentare il gettito fiscale per l'erario, introducendo nuove imposte e inasprendo le sanzioni.
Totalmente assente appare la necessità o l'urgenza di provvedere mediante decreto-legge. Le eventuali esigenze di bilancio dello Stato, per il contenimento della spesa pubblica o per l'aumento delle entrate fiscali, se possono giustificare la normativa d'urgenza, debbono comunque palesarne la necessità con l'espressa motivazione, che, nel caso, manca del tutto e niente ha a che vedere con le enunciazioni di finalità e ambito di intervento espresse all'articolo 1. Certamente corretta quindi appare la presa di posizione del consiglio nazionale forense, che avrebbe auspicato un ampio dibattito parlamentare sui temi e una legge ben ponderata. Non sembra del tutto coerente invece la proclamazione dell'astensione degli avvocati dall'attività di udienza, laddove non accompagnata da puntuale illustrazione dei motivi che la giustificano. Neppure sembra coerente l'atteggiamento di rivolta in contemporanea con altre categorie che non mirano a difendere valori importanti e generali come quelli che caratterizzano la funzione e il ruolo dell'avvocatura, nella società, nello stato, e, perché no, anche nel mercato. Forse, nell'impossibilità di trovare rapidamente e altri mezzi di protesta, l'astensione dalle udienze sembra pur sempre l'unico modo, pur che ben calibrata e attenta a non pregiudicare la tutela di interessi in gioco con passi falsi, ossia con attenzione prestata caso per caso ad ogni singola situazione, in modo che renda comprensibile che la protesta non travolge i principi enunciati, anche facendo tesoro delle precedenti esperienze e del contenzioso che essere in passato hanno generato.

Non tutti gli avvocati scioperano!

Pubblicato da Redazione 28-07-2006 12:49

Pubblichiamo un comunicato sottoscritto e diffuso da avvocati di Padova.


Non tutti gli avvocati scioperano!

In questi giorni i lettori sono stati da più parti - ed anche attraverso le pagine di questo giornale - informati sulle ragioni dello sciopero degli avvocati contro il cd. decreto Bersani.
Nella nostra qualità di avvocati, che esercitano la loro funzione nel foro di Padova e che non hanno aderito all'astensione, riteniamo importante informare i cittadini sul reale contenuto del cd. decreto Bersani (di cui poco si è parlato, a vantaggio, invece, delle idee liberamente espresse da ciascuno), delle sue conseguenze per la nostra professione e per il rapporto avvocato-cliente, della circostanza che molti avvocati, fra cui gli scriventi, non condividono affatto la linea dell'astensione dalle udienze propugnata da alcune delle associazioni di categoria e dal Consiglio Nazionale Forense.

1. - L'abolizione dei minimi tariffari

Il decreto Bersani abroga, anzitutto, le disposizioni che prevedono l'obbligo da parte dell'avvocato di applicare "tariffe fisse o minime". L'abrogazione del minimo tariffario, però, non significa che siano abolite le tariffe professionali, alle quali dovrà comunque essere rapportato il compenso spettante all'avvocato. Molto più semplicemente l'avvocato e cliente potranno convenire un compenso inferiore al minimo previsto dalla tariffa.
Si è detto da parte delle associazioni forensi che questo porterà uno scadimento della qualità delle prestazioni offerte, perché non sempre l'offerta di prestazioni a basso costo si accompagna ad una qualità adeguata.
Va osservato, anzitutto, che - come temiamo che i cittadini sappiano bene - non sia vero neppure il contrario; non sia vero cioè che ad una tariffa "salata" corrisponda sempre una prestazione di qualità. La qualità della prestazione dipende dal professionista e non è detto che il professionista - magari giovane - che ritenga di chiedere compensi inferiori al minimo renda necessariamente al cliente una prestazione di qualità inferiore.
L'altra considerazione riguarda proprio i giovani: in Italia si iscrivono all'albo circa quindicimila nuovi avvocati ogni anno, mentre a Padova i nuovi iscritti sono circa centoventi-centotrenta per anno (ad oggi gli iscritti al nostro foro superano le duemila unità). Chi ha voluto questa dissennata politica di indiscriminato accesso agli albi ha sempre fatto riferimento alle logiche del mercato che avrebbe dovuto selezionare i meritevoli. Queste stesse logiche ora impongono di consentire anche ai giovani che si affacciano alla professione di poter proporsi alla clientela con costi inferiori rispetto al collega affermato, in quella stessa ottica di mercato che ha consentito loro di diventare avvocati.

2. - Il patto di quota lite

Il decreto Bersani consente poi di "pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi prefissati". Cliente ed avvocato potranno cioè convenire che la parcella sia rapportata al risultato raggiunto ed, in caso di esito completamente negativo, essere anche pari a zero.
Si è detto, da parte delle associazioni forensi, che questo non gioverà ai cittadini e che, invece, i professionisti potranno lucrare alte percentuali sulle somme spettanti ai clienti.
Va ricordato, anzitutto, come la nuova disposizione non faccia venir meno il dovere dell'avvocato, previsto da una precisa norma deontologica, di astenersi dal richiedere compensi manifestamente sproporzionati rispetto all'attività svolta e, quindi, superiori al massimo tariffario. Peraltro - come temiamo che i cittadini sappiano bene - per trovarsi di fronte a richieste di compensi particolarmente rilevanti, magari a fronte di risultati scadenti, non si è certo dovuto attendere l'introduzione del patto di quota lite. Un compenso proporzionato al risultato contribuisce, invece, a fare chiarezza nei rapporti fra professionista e cliente, responsabilizza il professionista in ordine all'opportunità di assumere l'incarico consigliando così, correttamente, il cliente a non intraprendere azioni temerarie, che potrebbero avere il solo risultato di assicurare comunque al legale il pagamento dell'onorario. Il patto di quota lite consente, poi, all'avvocato di competere con altre categorie professionali che negli ultimi anni, proprio giovandosi di tali pattuizioni, gli hanno eroso importanti fette di mercato (si pensi, per tutte, alle agenzie infortunistiche).
Rischiare anche in proprio e non solo per conto del cliente sarà, inoltre, un ottimo incentivo per curare le cause ed evitare, se possibile, di perderle. Insomma, ricordando il vecchio adagio (sai perché la lepre corre più forte del cane?), anche l'avvocato correrà in proprio come la lepre, più forte del cane che, notoriamente, corre per conto terzi.

3. - La pubblicità legale

Il decreto Bersani consente di "pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto ed il prezzo delle prestazioni". Consente, cioè, di rendere pubblica la qualità del servizio ed il suo costo, in modo da assicurare al cliente la possibilità di effettuare a priori un confronto fra i professionisti.
Si dice, da parte delle associazioni forensi, che questa innovazione favorirà solo gli studi più ricchi e che i relativi costi saranno, comunque, scaricati sul cliente.
Va detto, anzitutto, che i grandi studi beneficiano già oggi di importanti strumenti, talvolta indiretti e quindi occulti, di pubblicità: appaiono spesso sui giornali con fotografie e profili, organizzano incontri e convegni, partecipano a dibattiti e processi televisivi, assumono difese per persone chiaramente non in grado di anticipare congrui compensi solo per il ritorno di immagine, dispongono di riviste specializzate che hanno, nella sostanza, il solo obiettivo di pubblicizzare titoli ed onori. Il consentire, quindi, a tutti, con trasparenza, di rendere pubbliche le proprie qualità ed i risultati della propria attività non può che essere positivo.
Il tutto dovrà, evidentemente, rispondere a requisiti di verità, decoro e dignità della professione che gli Ordini avranno il compito di verificare sanzionando chi abusi dello strumento.
Se il decreto Bersani ha, dunque, anche buone ragioni, stentiamo davvero a comprendere un perché, non corporativo, della così dura reazione da parte di molti colleghi che hanno ritenuto di aderire alla più lunga astensione dalle udienze del dopoguerra .


Intervento dell'avv. Nino Raffone di Torino

Pubblicato da Redazione 01-08-2006 12:12

Ora che il decreto Bersani, con qualche modifica, ha superato il primo passaggio parlamentare, è possibile riparlare in modo meno viscerale della protesta degli avvocati e dello sciopero, e della posizione dei Giuristi Democratici, anche per ripartire in modo più meditato a Settembre? Ci provo.
1) Non c'è dubbio che il decreto sia stato presentato senza alcuna concertazione, e che si tratta di un metodo inaccettabile. Quindi la protesta contro il metodo è sacrosanta.
2) Però io mi chiedo anche chi sia l'organo dell'avvocatura deputata a concertare. Forse è l'OUA, che infatti ha guidato la protesta, o il CNF. La prima organizzazione si pone come un sindacato degli avvocati, ma ricordo che i Giuristi democratici l'hanno sempre avversata e soprattutto si sono opposti a che si finanziasse con risorse fornite dai vari Consigli dell'Ordine, e quindi da tutti gli avvocati. Siamo sempre di questa opinione e cioè che i sindacati si finanziano col tesseramento dei loro iscritti, e non coi contributi di tutti gli appartenenti alla categoria? E' avventato definire una siffatta concezione sindacale come corporativa nel senso più totale? Siccome contro l'OUA è aperta una procedura per infrazione ai limiti dello sciopero, ove venisse condannata dovrei pagare anch'io?
3) Il Consiglio Nazionale Forense ha rappresentatività, ma vorrei sapere in quale momento ci ha sottoposto i progetti di riforma della nostra categoria. Avvertitemi se ho perso qualche passaggio.
4) Con ciò vengo alla sostanza delle riforme. Dico subito, per dissipare ogni dubbio, che si tratta di contenuti che non mi piacciono. Ma prima di accusare gli altri, è bene esaminare che non ci siano anche colpe nostre. Ove anche il punto della rappresentatività fosse superato, cosa si sarebbe detto al ministro nel corso delle consultazioni? Esistono dei progetti di riforma della professione sufficientemente elaborati e sottoposti alla discussione degli interessati e alla loro approvazione? Sto parlando di progetti collettivi, non di elaborazioni di singoli studiosi, che riguardano uno o altro tema, sovente pregevoli ma che restano a livello individuale e non collettivo.
5) Qui sta il nostro punto debole, che dovrebbe spingerci ad una autocritica profonda. Da almeno 10 anni in sede europea vengono avanzate critiche sul sistema delle categorie professionali e per quanto ci riguarda sull'avvocatura. Queste critiche (e non serve per il momento rilevare se corrette o infondate) riguardano in particolare: a) le restrizioni all'accesso; b) esistenza di tariffari minimi inderogabili; c) modelli organizzativi ristretti; d) limitazioni alla pubblicità; e) giurisdizione domestica per i comportamenti deontologici illeciti..
6) E' vero che anche in sede europea esistono sull'avvocatura divergenze tra la Commissione e il Parlamento, e che la Corte di Giustizia dovrà pronunciarsi tra non molto sul problema dei tariffari, per cui il problema è aperto, e questo fatto avrebbe dovuto indurre il ministro ad una maggiore cautela. Tuttavia non sarebbe stato doveroso in oltre dieci anni discutere al nostro interno su tutte le osservazioni in modo organico, per tentare di addivenire a qualche proposta sufficientemente condivisa? In realtà al di là di proposte individuali, non mi risulta ci siano state elaborazioni collettive che andassero oltre una risposta negativa a tutti i rilievi di provenienza europea (rifiuto che non è stato così totale in altri Stati europei, sui quali sarebbe interessante indagare per vedere come le modifiche hanno operato). In realtà abbiamo tutti confidato che essendoci tanti avvocati eletti nel Parlamento italiano ed europeo, la categoria avrebbe trovato ottimi difensori. L'attività di lobbyng è da condannarsi solo se esercitata da altre categorie ed è accettabile ove svolta dall'avvocatura?
7) Premesso che per il nostro mestiere detesto anche l'idea della pubblicità, del patto di quota lite, dell'abbandono dei minimi tariffari, e di tutto quanto introdotto nel decreto, mi chiedo però, anche se in modo disordinato: A) il patto di quota lite è orribile, ma non mi pare che vi sia un obbligo per l'avvocato di accettarlo. Vi ricordate come nelle campagne a difesa del divorzio e dell'aborto e in tanti altri casi, anche come giuristi democratici sostenevamo che si trattava di ampliare i diritti, ma che nessuno era obbligato a divorziare o abortire. E' cambiata questa nostra concezione sui diritti? B) L'andare sotto i minimi per chi come me difende solo lavoratori è una realtà da sempre (ed anzi su questo sistema si impernia tutta l'attività giudiziaria sindacale) eppure non mi sembra che i miei colleghi ed io per questo fatto abbiamo fornito una difesa di qualità inferiore al livello di accettabilità; C) la pubblicità è offensiva, e potrà dare luogo ad abusi che peraltro già in parte esistono. La modifica affida ai Consigli dell'Ordine un controllo, ma su questo punto tornerò più avanti.
8) Il decreto Bersani non affronta il tema della giurisdizione domestica. Proprio perché tace a me pare importante affrontarlo noi per primi, per dimostrare che non ci muoviamo solo in ottica corporativa, e che anzi siamo disposti a confrontarci. Non condivido chi scrive che l'attività disciplinare dei Consigli sia assidua, puntuale ed incisiva. Innanzitutto si tratta di procedure di cui nulla si sa, e non vedo proprio come una persona (sia collega sia utente) possa informarsi sui procedimenti pendenti contro un avvocato, sulle ragioni dell'accusa, sull'esito degli stessi. Il processo è segreto, il verdetto non conosciuto. A leggere le cronache giudiziarie i comportamenti di molti avvocati mi sembrano ampiamente censurabili, ma evidentemente il loro Consiglio non è intervenuto oppure avalla questi comportamenti. Questa sarebbe trasparenza? Poiché ai Consigli viene affidato anche il controllo sulla pubblicità, e quindi un aumento dei loro poteri, credo proprio che si possa cominciare a sostenere che per i processi disciplinari e i controlli sulla pubblicità i Consigli debbano essere allargati anche a non appartenenti alla categoria. Ricordo che tra le accuse rivolte alla magistratura (e in prima fila ad accusare ci sono molti avvocati) vi è quella di dover rispondere solo ad una giurisdizione domestica. Eppure il CSM è robustamente integrato da elementi laici
9) L'ho fatta lunga e la smetto qui. Lo sciopero degli avvocati, come risposta immediata ad una iniziativa inaccettabile del governo, ed anche per le implicazioni di ordine costituzionale, può essere comprensibile, anche se io non l'ho condivisa, non perché faccia il tifo per il governo, ma perché intuivo che sarebbe immediatamente degenerata. I Giuristi Democratici, che per quanto possibile hanno sempre tentato di non sposare posizioni corporative, rischiano di contraddire questa storia, aderendo ad una protesta che per le modalità di indizione, per la gestione, per le ragioni addotte, per la mancanza di ogni autocritica, per i politici che l'hanno subito cavalcata, non può non apparire corporativa all'opinione pubblica. Temo che con questa immagine si ripresenterà dopo le ferie. Ci tenevo a sottolineare il mio punto di vista.

Nino Raffone

L'intervento di 40 avvocati romani

Pubblicato da Redazione 05-10-2006 16:22

Le proteste indette dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura contro la Legge 248 (di conversione del cosiddetto "Decreto Bersani") ci obbligano, quali avvocati di sinistra, ad evidenziare quelli che costituiscono i veri nodi delle riforme relative alle professioni. In particolare, gli aspetti relativi all'abolizione dei minimi tariffari inderogabili e del divieto di pubblicità, oggetto della norma contenuta nell'articolo 2.

A nostro avviso il problema non risiede nel pericolo di concorrenza al ribasso. La trasformazione attesa è ben maggiore e tende a trasformare una professione in Italia ed in Europa ancora "artigianale" in una professione industrializzata, sul modello statunitense.

Indubbiamente hanno pesato e pesano molto in tal senso le pressioni di frange importanti del capitale desiderose di trovare investimenti ad alto valore aggiunto, per resistere alla concorrenza nel mercato dei prodotti "delocalizzabili". Queste pressioni si sono indirizzate prevalentemente sull'Unione Europea, dove sono maturate le norme (es. Direttiva Bolkestein), che sono la matrice del decreto Bersani.

Le norme deontologiche italiane (ossia le norme cui gli avvocati debbono attenersi nell'esercizio della professione), sono da sempre un ostacolo molto forte alla trasformazione dello studio artigianale in studio industrializzato, ma soprattutto all'investimento di capitali "esterni" nella professione forense.

In particolare, tre sono le norme ostative: la norma che vieta soci non professionisti (ovvero soci di soli capitali) negli studi professionali, la norma sui minimi, ed il divieto di pubblicità.

Si pensi ad un ipotetico investitore, dotato di un forte capitale, che voglia entrare nel settore legale. Prima dell'entrata in vigore della legge poteva prendere in locazione un immobile prestigioso ed assumere, sia pure con forme mascherate, bravi, giovani avvocati. Si sarebbe però trovato solo con la clientela che tali avvocati, fiduciariamente, si erano già conquistati. Non aveva reali possibilità espansive.

Da tempo si paventa l'avvento dei grandi studi anglo-americani in Italia. In effetti tale avvento ha interessato solo alcuni clienti particolari. La grande maggioranza delle persone e delle imprese ha continuato a rivolgersi ai propri avvocati di fiducia, o conosciuti per la loro attività accademica, o per le pronunce favorevoli ottenute o ancora per il "passaparola". In sostanza, allo stato attuale, coloro i quali non hanno un avvocato di fiducia, quando ne hanno bisogno, chiedono ad amici, o riportano alla mente nomi emersi dalle cronache. In questo quadro, quindi, lo studio legale "Jim, Joe & John" che volesse aprire in Italia una importante succursale avrebbe poche possibilità di accaparrarsi una quota di mercato.

L'apertura del mercato forense a questo tipo di investitori necessita quindi, in primo luogo, di uno scardinamento dell'Ordine e del suo Codice deontologico, prima fra tutte della norma che proibisce la pubblicità.

Solo la pubblicità consente ad un operatore nuovo, dotato di forti capitali di acquisire uno spazio nel mercato tale da compensare l'investimento fatto. Anche la pubblicità però, si dimostra inefficace se non può fondarsi su elementi suggestivi di forte impatto. Il primo di questi è il prezzo delle prestazioni.

Solamente se sarà possibile pubblicizzare, tre separazioni o tre ricorsi al prezzo di due (limitiamo gli esempi al settore civile) queste nuove realtà "industriali" potranno diffondersi. Devono quindi saltare in termini assoluti i minimi tariffari inderogabili. In realtà i minimi tariffari hanno sempre svolto una funzione ben diversa da quella di reale determinazione dei prezzi delle prestazioni forensi. Chi ha avuto esperienza di rapporti con avvocati, difficilmente avrà visto l'avvocato cui si era rivolto prendere in mano il tariffario per determinare il costo della propria assistenza. La gran parte dei nostri colleghi presta la propria attività, in innumerevoli casi, al di sotto delle tariffe. Questo non certo per concorrenza sleale, ma semplicemente perché talvolta le tariffe possono risultare alte (in ragione di una operatività non sempre corretta degli scaglioni tariffari), ed uno dei principali pregi della nostra professione è sempre stato quello di potere fornire la nostra opera, quando ci sembrava giusto, a costi "politici", commisurati alla capacità reddituale del cliente. Mai risulta che un Ordine abbia sollevato questioni. Sempre che, naturalmente, una simile scelta non venisse usata, appunto, come arma concorrenziale. La differenza sembra sottile, ma è notevole.

In altre parole: domani il nostro vecchio cliente vedrà applicata la stessa tariffa che gli praticavamo prima. Le cifre che richiederemo saranno determinate sulla base di altre considerazioni (difficoltà della causa, etc.). Non avrà alcun vantaggio diretto dall'abolizione dei minimi. Solo, vedrà comparire nuovi soggetti, supermercati dell'avvocatura, che avranno modo di farsi conoscere attraverso la pubblicità. Nel medio periodo, come è successo per tutte le realtà artigianali, queste strutture soppianteranno il modello di studio legale personale o familiare, oggi diffuso in Italia ed in gran parte d'Europa.

Resta da comprendere non solo se ciò sia coerente con il fine ultimo che l'Unione si è proposta in materia, ma se la società ne trarrà giovamento. Della società, certo fanno parte anche le centinaia di migliaia di professionisti, che saranno lentamente trasformati in salariati, come è negli Stati Uniti. Se tale modello di sviluppo ha un valore precognitivo, crediamo che anche gli utenti non ne trarranno un vantaggio dal punto di vista tariffario. I soggetti che si faranno concorrenza si ridurranno notevolmente. Oggi, con decine di migliaia di avvocati non è difficile trovare un avvocato (parente, amico, amico di amici) che accetti di difendere anche a condizioni economiche vantaggiose. Tutto questo evidentemente cesserà: i supermercati non fanno credito. Si determinerà una maggiore specializzazione, con vantaggi e svantaggi connessi. La produttività individuale probabilmente diminuirà, in questo contesto. Non solo per il trasferimento del plusvalore economico della prestazione al socio di capitale. Ma anche perché ogni avvocato è legato, allo stato attuale, al cliente, con cui stabilisce un rapporto fiduciario personale; soprattutto, l'avvocato si immedesima con il risultato della propria opera. Insomma, è chiaro che, se prima, quando lavoravamo in proprio, facevamo tardi per finire un atto, domani non sarà così.

Vi saranno dei miglioramenti notevoli, però, in termini di economie di scala. Se oggi un singolo avvocato può godere di una intera stanza a sua disposizione, certo domani, come avviene nelle società più grandi, potrà condividere la stessa con altri. Invece di avere dieci studi di quattro stanze (40 avvocati), vi sarà uno studio con venti stanze per lavorare, ed un'unica stanza di ricevimento (senza dubbio molto bella). Peraltro le spese della pubblicità graveranno su tali società, come avviene negli altri settori.

Nel dettaglio, poi, su due punti riteniamo sia necessario intervenire con urgenza, poiché anch'essi completamente dissonanti con il programma elettorale dell'Unione -che propugnava l'eliminazione degli ostacoli all'accesso dei cittadini alla giustizia. Il primo, contenuto nell'art. 21, riguarda le spese di giustizia, per le quali è previsto il pagamento per mezzo delle ordinarie procedure in materia di contabilità generale dello Stato. Gli emolumenti verranno così effettuati in tempi assai lunghi, anche di anni, in danno degli interpreti, dei consulenti dei giudici e di tutti quegli avvocati che -come noi- difendono le persone non abbienti, per le quali, secondo quanto previsto dalla nostra Costituzione all'art. 24, lo Stato provvede a pagare i costi della difesa. Con l'ovvio risultato che scemerà la motivazione a difendere persone povere, così come accadrà con i difensori d'ufficio, che nei processi penali assistono i cittadini privi di difensore di fiducia.

Un altro aspetto censurabile del decreto è contenuto nell'art. 35, che obbligherà i professionisti, gradualmente, a non farsi pagare in contanti. In realtà il divieto di incassare parcelle in contanti, pure finalizzato al raggiungimento dell'auspicabile fine di combattere l'evasione, non tiene conto della specificità di alcune delle fasce più deboli della clientela (come quell'utenza extracomunitaria che non ha, né riesce ad avere, conti correnti bancari). Si crea quindi un vero e proprio incentivo all'evasione fiscale, giungendo al fine opposto a quello prefissato. Infatti al cliente che paga in contanti, non potrà essere rilasciata la fattura. In definitiva, pare che sia stato valutato con scarsa attenzione un tema delicato, quale l'effetto economico di una trasformazione della professione, che come qualunque intervento in tema di fiscalità deve essere esaminato globalmente (a maggior ragione quando si sostiene, a torto, che la riforma favorirà i cittadini).

Infine, alcune considerazioni prettamente politiche. Ci si deve chiedere se la nostra società, nel progredire del tempo, debba necessariamente eliminare ogni sacca di resistenza artigianale, per favorire unicamente la forma di lavoro industrializzata/salariata, con eliminazione di ogni lavoratore autonomo. Di più: l'avvocato oggi, nella propria attività, può agire ed usare strumenti di critica, anche feroce, nei confronti di tutti i soggetti e poteri forti, in quanto libero professionista: siamo sicuri di voler rinunciare a questa opportunità? Chi, come talune associazioni di consumatori, plaude alla possibilità di riqualificare l'obbligazione dell'avvocato in obbligazione di risultato, e non più di mezzo, manifesta una scarsa conoscenza dell'attività forense. La tariffa "a percentuale" è adatta solo ai casi in cui vi è un indennizzo da acquisire (ed è già largamente applicata in questo settore). Come applicarla al diritto penale, al diritto amministrativo, al diritto di famiglia, al diritto fallimentare, etc.? Inoltre non va dimenticato che, nell'ambito di una causa, chi può "avere torto" è il cliente, non l'avvocato, e anche chi ha torto ha diritto di essere difeso affinché il proprio torto rimanga in un alveo di proporzionalità. Un esempio. Il cliente ha provocato un danno: è giusto che paghi il risarcimento, ma nei limiti di giustizia, e di equità.

Su questi e su altri elementi dalla forte presa populista (come il cosiddetto "indennizzo diretto"), vogliamo invitare a riflettere tutti coloro che, come noi, temono e contrastano l'attuazione di un disegno paleoliberista anche in un campo come quello della professione forense, non commerciale ma che -come da specifica norma- fornisce un "servizio di pubblico interesse". Pertanto proponiamo, quale primo e fondamentale obiettivo, lo stralcio dall'articolo 2 della figura professionale dell'avvocato e la modifica degli artt. 21 e 35 della Legge 248/06.

settembre 2006

PIETRO ADAMI
CESARE ANTETOMASO
e altri 38 Avvocati in Roma

Bersani ha eseguito, solo in parte, decisioni della CE e dell'Antitrust. - avv. Luigi Ficarra di Padova

Pubblicato da Redazione 17-10-2006 22:23

G.D. sì - Sindacato no. - Il nostro impegno.

1. Premetto che a mio avviso molti hanno erroneamente dato alla questione una impostazione quasi per intero, se non del tutto, di carattere sindacale, dimenticando che noi siamo, non un sindacato di avvocati, ma un'associazione politico-culturale di giuristi democratici, cui aderiscono magistrati, professori, ricercatori, studenti, cancellieri, etc., che ha come finalità principali: a) ".. la difesa ed attuazione dei principi democratici, di uguaglianza ed antifascisti della Costituzione della Repubblica, per la applicazione delle Convenzioni dei Diritti dell'Uomo, per la realizzazione di una Costituzione Europea autenticamente democratica, fondata sul ripudio della guerra, con particolare riguardo ai diritti dei lavoratori, dei meno abbienti e degli emarginati ed ai diritti di associazione, libertà di circolazione, riunione e manifestazione del pensiero"; b) "promuovere e divulgare le esperienze giuridiche italiane, con particolare riferimento a quelle che ampliano gli spazi di democrazia, sia dei soggetti individuali sia dei soggetti collettivi, in una prospettiva di pluralismo istituzionale e culturale; in particolare promuovere l'affermazione e la difesa del principio di uguaglianza, dei diritti dei lavoratori, sia sul posto di lavoro sia nell'ambito di vita associata; dei diritti dei cittadini immigrati, delle minoranze"; . c) "promuovere la ricerca nel campo delle scienze giuridiche, per l'affermazione della solidarietà tra i popoli e tra gli uomini e per la costruzione di rapporti interpersonali e sociali basati sul ripudio della guerra, sulla non violenza, sulla libertà, sull'eguaglianza, le pari opportunità"; d) "sostenere ogni azione in difesa dei diritti dell'uomo, della libertà dei popoli, del rispetto della sovranità e dell'indipendenza della nazioni, nello svolgimento pacifico dei rapporti internazionali" (art. 5 Statuto dei g.d.).

La suddetta impostazione - a mio parere, ripeto, errata - ha impedito di collocare nel suo giusto contesto generale la iniziale riforma "Bersani", ed ha spinto molti compagni, anche dell'associazione Giuristi Democratici, di professione avvocato, (che sul punto hanno seguito le indicazioni dell'OUA ed del CNF), a concentrare l'attenzione sul proprio ombelico, sugli aspetti, cioè, strettamente legati alla propria immediata condizione personale e ad esercitarsi, in prevalenza ed in particolare, sulle questioni di apparente dubbia interpretazione di alcune norme della nuova normativa (rapporto fra art. 2233 c.c., come modificato dal decreto, ed art. 1261 c.c., patto per il compenso e natura del mandato, etc.).


2. Il decreto Bersani si colloca nel contesto di un mercato capitalistico dominato dal postfordismo, in profonda rivoluzionaria trasformazione tecnica (l'informatica), ed in cui c'è un'aperta guerra di concorrenza fra i nuovi giganti del capitalismo mondiale (Cina ed India in particolare - area del sud est asiatico - ed alcuni paesi di punta dello sviluppo del Sud America) e vecchia Europa in declino ed USA.

Un contesto che ha visto e vede un attacco generalizzato alla condizione dei lavoratori, attacco che ha portato alla cancellazione di molte conquiste degli anni '60 e '70, ed alla perdita di molti punti nella retribuzione operaia.

Un contesto di pieno trionfo dell'ideologia liberista, che ha portato, a livello nazionale e locale ad un processo di privatizzazioni generalizzato e selvaggio, anche in contrasto con l'art. 43 cost.; all'affermazione netta del primato dell'impresa sul lavoro, con conseguente modifica in senso "materiale" dell'art. 1 cost., che voleva la Repubblica "fondata sul lavoro"; alla riduzione anche simbolica di quest'ultimo, con la generalizzazione del precariato, con l'aumento dell'orario di lavoro e dello sfruttamento selvaggio, a merce vile, con sostanziale modifica, quindi, anche dell'art. 41 cost. - Un contesto che ha spinto la classe dominante ad attaccare e ridurre sensibilmente l'autonomia e l'indipendenza della magistratura (vs. controriforma dell'ordinamento giudiziario), e, quindi, a togliere da un lato le garanzie di difesa dei subordinati e degli emarginati: i nuovi dannati della terra, e dall'altro a dare maggiore "tranquillità" alla borghesia, compresa quella "compradora", legata ed, anzi, espressione delle mafie. E' il contesto in cui, come dice Moretti, ha vinto il "berlusconismo". Un contesto, infine, in cui c'è stata e c'è la morte del diritto internazionale, e nel quale, per quanto direttamente qui ci interessa, anche dopo la vittoria del referendum per salvare la Costituzione, esponenti di primo piano della classe politica dominante (Veltroni, ad esempio, e con lui molti altri, anche assisi in alti colli), auspicano una riforma "concordata" per trasformare la nostra Repubblica da democratica e parlamentare in Presidenziale.

- Pensare che in un contesto simile, di pieno trionfo dell'ideologia del mercato, la categoria degli avvocati potesse, come collocata in un cielo puro, distaccato, restare immune da ogni intervento teso alla sua estesa mercificazione, come tutte le altre categorie di lavoratori, anche intellettuali (economia c.d. della conoscenza e-o cognitiva - intellettuali come parte del general intellect), è una vera e propria astrazione, che si spiega solo con l'errore di impostazione di cui ho prima parlato. E' poi profondamente contraddittorio dire da un lato, come si legge in un documento appovato il 15 settembre 2006 dall'assemblea dei delegati del Distretto di Napoli al XXVIII Congresso Nazionale Forense, che non si vogliono "porre in discussione la validità dei principi economici e di mercato contenuti nella direttiva "Bolkestein" (e comunque nelle decisioni della CE), e nel contempo affermare che "tali principi non possono estendersi ... alle professioni intellettuali ed in particolare alla professione di avvocato"; (cosa, questa, che non mi pare sia peraltro prevista dall'art. 3 della citata direttiva "Bolkestein").



3. Preciso subito, a mo' di premessa, che non ha senso alcuno "ribellarsi", nascondendosi dietro un ideologico paravento, dicendo, come fa Alpa, seguito sul punto da qualche nostro compagno, che sì, è vero, la professione forense è attività di prestazioni di servizi nel mercato capitalistico, ma non è assimilabile all'impresa e, quindi, non va assoggettata al regime della concorrenza. Ciò perché - si dice - "la professione intellettuale è nel nostro ordinamento lavoro e non impresa, espressione di attività prevalentemente personale, indipendente ed autonoma, e persegue interessi non solo economici, ma anche pubblici ..." (vs. Alpa, in "Concorrenza e mercato professionale" - 2005). Non è vero, perché trattasi in ogni caso di ditta, impresa individuale, con partita iva E, poi, il fatto che persegua, come è indubbio, "una funzione sociale" e, quindi, interessi anche pubblici non è un argomento decisivo, in quanto anche il concessionario di un servizio pubblico li persegue, senza che per questo venga meno il suo carattere di impresa. Ma - si badi bene -, al di là della forma giuridica, che data anche l'organizzazione, è indubbiamente d'impresa, sia pur prevalentemente personale, indipendente ed autonoma, trattasi sempre di lavoro intellettuale; e lo si sottolinea con riferimento a quanto diremo più avanti.

Inoltre, preciso, sempre a mo' di premessa, che, a mio avviso, non ha neppure senso affermare apoditticamente che la normativa introdotta col d.l. 223/06 abbia "modificato il mondo della giustizia" e che addirittura, come scrivono i delegati di Napoli nel documento sopra citato, abbia violato i principi affermati nella Risoluzione 16.3.06 del Parlamento Europeo sulle professioni legali, (risoluzione che richiamava la direttiva comunitaria n. 36/05, c.d. "Zappalà); e che, quindi, abbia attaccato i valori di "indipendenza, autonomia e dignità dell'avvocato", e di conseguenza la sua funzione, necessaria ai fini dell'esercizio della giurisdizione. Trattasi di affermazioni ideologicamente false, perché nessuno può in buona fede affermare che "il diritto di difesa" sancito dall'art. 24 cost. abbia subito una qualche modifica a seguito delle norme del decreto Bersani che riguardano direttamente gli avvocati - ( diverso è, ovviamente, il discorso da fare circa le gravi restrizioni delle spese di giustizia, che, in continuità con le scelte del precedente governo di destra, sono statuite con l'art. 21 del citato decreto; restrizioni che si ritorcono contro la tutela in via generale dei diritti dei cittadini deboli). E' pure metodologicamente non corretto, a mio parere, porre una correlazione, con riferimento agli effetti sul mondo della giustizia, fra il decreto Bersani e la controriforma dell'ordinamento giudiziario varata dalla destra; e che l'attuale nuova maggioranza parlamentare - fermi restando i molto limitati e parziali "compromessi" raggiunti - non ha cancellato, come invece avrebbe ben potuto fare, coerentemente al programma elettorale concordato, ponendo il voto di fiducia, sol che avesse avuto la volontà politica di farlo. Non è corretto, perché mentre il cittadino può sempre, anche oggi, se ha i mezzi, s'intende, scegliersi, come prima, l'avvocato che vuole ed anche, se è un committente potente, asservirlo a sé, - invece, travolte la piena indipendenza ed autonomia della magistratura, sancite dalla Costituzione, sono le classi subalterne, come sopra accennato, a subirne tutte le dirette nefaste conseguenze, e l'intera società in termini di crisi della democrazia e dello Stato di diritto. Il carattere di classe, poi, della giustizia, che noi g.d. decisamente contestiamo, non nasce certo col decreto Bersani - (vedi la composizione sociale della popolazione carceraria, rimasta immutata dal 1860 ad oggi) -, ma discende dalla struttura capitalistica della società in cui viviamo. La lotta perché tutti possano scegliersi una valida difesa, non condizionati in ciò dalla loro condizione sociale, deve essere al centro del programma dei g.d.; ed abbiamo l'obbligo di passare dalla petizione di principio alla elaborazione di proposte concrete, che abbiano al centro, sì, il potenziamento del gratuito patrocinio, ma abbiano anche il coraggio di andare molto oltre, investendo la struttura stessa della professione forense.

Infine, ritengo si possa senza tema affermare che il ruolo svolto dagli avvocati nell'ambito della giurisdizione non sia stato intaccato dal decreto Bersani, ferme restando, s'intende, le notevoli, radicali differenze politiche e culturali esistenti al loro interno, e, quindi, la diversità della funzione da essi svolta.

- Ancora una notazione: quella parte del mondo dell'avvocatura scesa in sciopero, abbaiando alla luna, come ho scritto in una precedente nota, ha semplicemente omesso di tener presente che in Italia è la giustizia stessa che, per una chiara scelta politica, è stata messa volutamente in sciopero da molti e lunghi anni, facendole mancare i mezzi e gli organici necessari per poter funzionare: ha invero l'effetto di un lungo sciopero prolungato il rinvio di un anno o due in una causa di lavoro, il rinvio di un anno di un'udienza penale, il rinvio anche di cinque - sette anni nelle cause civili da parte della Corte Veneta. E però, contro questo stato comatoso della giustizia mai è stato proclamato uno sciopero da parte dell'avvocatura, ma solo, che io ricordi, da parte della magistratura.



4. Il c.d. decreto Bersani, contrariamente a quanto pensano alcuni, i quali lo considerano estraneo al programma dell'Unione, applica invece coerentemente le indicazioni - prescrizioni date in materia dalla CE e dall'Antitrust; ma non del tutto, avendo solo in parte iniziato a farlo.

- Richiamo innanzitutto la Comunicazione COM 83 del 9 febbraio 2004, con cui la CE, seguendo il pensiero economico liberista, preme per la rimozione, nel campo delle professioni, di barriere che si frappongono al trionfo della libertà dispiegata del mercato. Gli ostacoli individuati dalla CE sono in particolare i seguenti: °l'esistenza di tariffe, in particolare di minimi inderogabili; °la limitazione della cooperazione interprofessionale; °le limitazioni alla pubblicità; °i modelli organizzativi ristretti, con esclusione delle società cui partecipino soci non professionisti, apportatori di solo capitale. Ebbene, il decreto Bersani, ha tradotto in pratica le prime tre succitate "prescrizioni".

- C'è poi nel 2005 la importante Comunicazione della Commissione al Consiglio d'Europa ed al Parlamento Europeo - COM 405 del 5 settembre 2005, intitolata "I servizi professionali", che dà per l'immediato l'indicazione di eliminare le restrizioni più evidenti alla libera concorrenza: prezzi e pubblicità -, obbiettivi, questi due, già accolti dalla recente normativa "Bersani";e pone la scadenza del 2010 - cioè fra quattro anni - per giungere alla riforma più radicale, agognata in particolare dal capitale finanziario: la inclusione, fra i modelli organizzativi degli studi professionali, di società cui possano partecipare di pieno diritto soci non professionisti, apportatori solo di capitali in febbrile attesa di essere "valorizzati" con l'uso di forza lavoro intellettuale. In una fase di concorrenza dispiegata nei confronti dell'economia europea, concorrenza sviluppata in particolare dall'industria manifatturiera cinese e di altri paesi, in particolare dell'oriente, dove la manodopera ha costi, rapportati ai nostri, bassissimi, viene operata, specie da parte del grande capitale finanziario, la scelta di investire in settori ad alto valore cognitivo, come quello delle professioni, per conquistare un mercato di elevato valore aggiunto e quindi, come dice anche Alpa nella nota più sopra citata, di significativo profitto.

- La posizione dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Italiano (Antitrust) è stata espressa, per restare fermi agli anni recenti, con la Comunicazione del 12 maggio 2004, con cui viene in particolare criticato il divieto del ricorso alla pubblicità comparativa, rilevando che "le preclusioni vigenti sono in contrasto col C.CB.E. (codice di deontologia
europeo), che, invece, consente all'uopo l'uso di mezzi di informazione quali radio, giornali e TV"; e dice che è giusto poter pubblicizzare i prezzi praticati per le prestazioni, le percentuali di cause vinte, etc. (Circa la pubblicità informativa occorre ricordare che in Italia, ben prima del decreto Bersani, è caduto, in parte nella redazione del codice
deontologico del 1999 e poi in quello del 2002, il divieto posto dall'art. 17 del Codice Deontologico del 1977).

° L'Antitrust, poi, con "segnalazione del 27 aprile 2005" criticò a fondo l'applicazione
di tariffari, ritenendo che "la fissazione di tariffe minime non solo non è riconducibile al perseguimento dell'interesse generale, ma non garantisce elevati livelli qualitativi nelle prestazioni". E concluse, dicendo che "i compensi (tutti, minimi e massimi) dovrebbero essere fissati liberamente dal
professionista". - Ha infine sostenuto, nella citata segnalazione dell'anno scorso, che occorre consentire la formazione di società non solo con la partecipazione di avvocati professionisti, ma anche con soci apportatori di soli capitali: obbiettivo che la CE, come prima ricordato, ha fissato per il 2010.

Anche Alpa, ovviamente respingendolo, ha presente lo scenario efficacemente prefigurato dal gruppo dei 40 giuristi romani, primo firmatario Adami, ed infatti nel suo sopra citato saggio scrive: "I minimi tariffari proteggono la struttura capillare dei prestatori di servizi contro la forza finanziaria di pochi
gruppi di grandi dimensioni che tenderebbero alla concentrazione, con la conseguente estromissione dal mercato di professionisti anche di qualità ...., troppo piccoli per competere con armi misurabili in moneta".

- Bersani, in conclusione, si è limitato a tradurre, in precise norme interne, prescrizioni ed indicazioni date dalla CE e dall'Antitrus. Qualcuno direbbe: è il mercato bellezza!

(Va anche ricordato, per completezza, che in Europa i prezzi minimi per gli avvocati continuano ad esistere, ancora per poco, solo in Austria e Germania e per altro limitatamente al solo contenzioso giudiziario).



5. Come G.D. - scrivevo ad un amico l'estate scorsa - dobbiamo fare delle profonde riflessioni critiche che ci consentano di andare alla radice del problema, disvelare la logica del processo in corso, e, quindi, ripristinare
il valore della verità, parola che letteralmente in greco antico significa proprio "togliere il velo". E per farlo dobbiamo secondo me dire proprio quanto ho cercato di esporre sopra, e cioè che il d. Bersani, molte delle cui norme il precedente governo di destra tentò, senza riuscirci, di introdurre pure per decreto, non fa altro che aderire alle prescrizioni della CE ed alle tendenze in atto nel mercato capitalistico, che vedonol'insorgere in esso di grandi studi, prevalentemente di capitale, aventi alle loro
dipendenze, come salariati, molti avvocati, specializzati in singole materie e, anzi, in parti minime dellestesse: lavoro c.d. particellare, retribuito in base al suo valore di
mercato, come lo è oggi, in questo, qualunque altra merce.

I singoli esercenti la professione forense rischiano altrimenti, se non si raggiunge detta conoscenza e consapevolezza della chiara tendenza in atto, cioè della trasformazione
della professione da artigianale ad industriale, come in USA, di sbattere la testa contro il muro e di abbaiare alla luna, come accadde al movimento "luddista" di due secoli fa, ai contadini che rifiutavano di associarsi in cooperative, di fronte all'avanzare delle grandi aziende agrarie
capitalistiche, ed ai membri delle singole "arti", che nel '300, a fronte dell'insorgere delle prime grandi manifatture capitalistiche, rispondevano sollecitando il chiudersi viepiù delle stesse "arti" in sé stesse, rendendo
così più rapido il loro declino e la loro scomparsa. Il problema è di fondo: così come non si può impedire la "mondializzazione", l'unificazione capitalistica del mercato mondiale, solo evocando la
"tranquilla e beata", s'intende per pochissimi, passata economia prevalentemente agricola, così non si potrà impedire la nascita di studi
legali, prevalentemente di capitali, gridando alla luna ed esaltando la bellezza degli studi artigianali, quali oggi prevalentemente sono in Italia.

Per render più chiaro il disegno di fondo che sta dietro il decreto in questione, osservo che un gruppo di lavoro di area vicina ai DS si è posto seriamente il problema di quali condizioni occorra realizzare per favorire ed incoraggiare la transizione, in Italia, dalla struttura oggi prevalentemente artigianale delle professioni a quella industriale, ritenuta da esso più rispondente alle tendenze oggettive del mercato capitalistico e quindi più avanzata.

- Come sempre accade nella storia in casi simili, gli alfieri di questa riforma "Bersani", - (che a mio avviso era inevitabile, nel quadro
capitalistico in cui si colloca) -, dicono, ideologicamente, e, quindi, con falsa coscienza, che è stata fatta nell'interesse degli ultimi, cioè dei neolaureati abilitati alla professione, per consentire loro di praticare
prezzi più bassi. Cosa del tutto falsa, perché, intanto, solo un grande studio di capitali può, ad esempio, permettersi di sostenere elevati costi per la pubblicità, avere alle sue dipendenze, con contratti precari, neolaureati abilitati, pagati pure a prezzo vile, secondo la logica del libero mercato e fare dumping, anche per periodi non brevi, al fine di eliminare dal mercato tanti studi artigianali, cominciando proprio dai più piccoli. E poi, come è noto, anche ieri un neolaureato abilitato poteva, volendolo, praticare prezzi più bassi dei c.d. minimi tabellari, e nessuno
riusciva a perseguirlo, ché avrebbe dovuto essere per assurdo denunciato dal cittadino cui aveva fornito la sua prestazione.

- Se c'è un punto, infine, su cui il decreto Bersani , in coerenza alla sua impostazione di fondo, significativamente non interviene, è quello dello sfruttamento su larga scala del "praticantato". In merito sono convinto che
solo una lotta sindacale, condotta da forze che hanno criticato e criticano alla radice l'ideologia e la pratica del lavoro precario e dello sfruttamento senza limiti della forza lavoro, potrà ottenere nel tempo dei risultati; e come g. d. penso dobbiamo sollecitare l'intervento sul tema delle confederazioni sindacali, svolgendo anche noi una grande battaglia politico-culturale.

- Invece di abbaiare alla luna, dovremo rimboccarci le maniche e studiare che tipo di opposizione occorre svolgere contro il decreto in questione per superarne la logica di fondo che lo presiede. E' un problema politico grande, che si inserisce nel discorso generale sulla struttura di classe della società, e come tale va affrontato, senza nascondersi dietro falsi paraventi ideologici.

Il problema base è oggi come cambiare il
sistema giustizia. Non partiamo dall'anno zero, esistendo sul tema delle serie elaborazioni sia di MD che nostre; e propongo che fra le due associazioni si stabilisca a livello nazionale una organica e programmata collaborazione: unico ed eguale è infatti l'obiettivo di fondo: la trasformazione democratica del sistema giustizia ed il superamento delle sue profonde, radicate incrostazioni di classe.

Una grande battaglia dovrà subito essere avviata unitariamente nel paese dalle due associazioni per l'aumento immediato e consistente delle spese per la giustizia, dando un'indicazione giusta, tale da avere una larga adesione di massa: ridurre drasticamente le spese militari, cominciando col ritiro immediato del contingente militare inviato in Afghanistan.

- Circa il tema della riforma della professione dell'avvocato e della elevazione della "professionalità offerta", tema interno a quello di fondo della trasformazione del sistema giustizia, bisogna "ripartire dalla riforma dell'Università, imponendo criteri di valutazione e selezione seri e coerenti con l'importanza del servizio giustizia". E quindi occorre, aggiungo, che affrontiamo anche
noi il problema del superamento della riforma Berlinguer ....,. Moratti, per la realizzazione di una Università democratica, molto seria, con rigidi criteri di valutazione e formazione, e, quindi, non organizzata come oggi, una di basso livello, per i figli del proletariato, che devono andare subito a lavorare, ed un'altra, di elevata formazione, per i figli della "buona"
borghesia, quelli destinati alle c.d. professioni liberali, alle cattedre e ad occupare, comunque, posti di comando nella società. Una Università che consenta a tutti di accedervi, con piena realizzazione quindi del diritto allo studio, e che nel contempo chieda a tutti, compresi i docenti, il massimo sforzo, assoluta serietà, dedizione ed impegno.

Padova 16 ottobre 2006

Luigi Ficarra