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 Il Primo Ministro come duce elettivo ... - Giuseppe Ugo Rescigno

Pubblicato da Redazione 13-06-2006 18:51
:: Giustizia
 

Il nuovo testo costituzionale rende, nella sostanza, immodificabile l'attuale legge elettorale, e questo legame tra una Costituzione, che deve durare nel tempo, ed una legge elettorale che è stata pensata in funzione di una situazione politica contingente, è uno tra non gli ultimi motivi per respingere decisamente questa riforma costituzionale, o meglio questa nuova costituzione contraria non solo a tutti i valori costituzionali della Costituzione del 1947, ma anche a qualunque valore del costituzionalismo degli ultimi due secoli e mezzo.


Titolo orignale:
Il Primo ministro come duce elettivo e la Camera dei deputati come ancella del duce (a proposito della riforma costituzionale oggetto di referendum approvativo)

Giuseppe Ugo Rescigno

Intervento alla conferenza
"Le ragioni del NO - Referendum costituzionale del 25 - 26 giugno 2006"


Roma, 31 maggio 2006


Data la divisione dei compiti tra Azzariti, Stammati e me, tratterò soltanto del rapporto tra Primo ministro e Camera dei deputati.
Prima di entrare nel merito del tema conviene riscoprire l'ombrello (o l'acqua calda, come più piace).

E' del tutto evidente, senza bisogno di dimostrazione, che, dati due soggetti A e B, titolari ciascuno di una carica pubblica, se la permanenza nella carica di uno dipende dalla volontà dell'altro, il primo dipende dal secondo.

Infatti è pacifico che nella forma di governo chiamata parlamentare il fatto che l'assemblea rappresentativa, togliendo la fiducia, abbia il potere di rimuovere il governo costituisce l'arma decisiva e la prova definitiva che il governo dipende dalla assemblea rappresentativa, e, mediante tale dipendenza, dipende in ultima istanza dal corpo elettorale che ha eletto l'assemblea.

Che poi tale dipendenza, essendo legata alla responsabilità politica, si traduca nel suo inverso, e cioè nel potere di direzione del governo nei confronti della assemblea, è a sua volta determinato dal fatto che il governo è espressione della maggioranza politica della assemblea, è cioè quel collegio che comprende coloro che la maggioranza ritiene più adatti a formulare e guidare la politica generale del Paese, ma non toglie la dipendenza: in ogni momento quella stessa maggioranza, o una nuova maggioranza, può, se vuole, far cadere il governo.

E' un meccanismo complesso, apparentemente contraddittorio, perché tiene insieme dipendenza e direzione del dipendente, ma razionale dati gli scopi per i quali è stato forgiato dalla esperienza, e proprio per questo presente anche in altri contesti: si pensi all'amministratore delegato di una grande o piccola impresa, che viene eletto e revocato dagli azionisti e quindi dipende da questi, ma viene eletto proprio per dirigere l'impresa (e quindi anche gli azionisti).

Tornando al rapporto tra l'organo governo e l'organo parlamentare, si istituisce e si garantisce in tal modo una effettiva dialettica tra le due istituzioni, dialettica che in Europa ha oltre due secoli di storia, ha dato complessivamente, nonostante i molti inconvenienti e le sempre possibili degenerazioni, prove senza paragone migliori di altre forme di governo sperimentate, ritorna anche in quella forma di governo che viene dai più distinta da quella parlamentare, e cioè quella semipresidenziale francese, come si vede con piena evidenza nei periodi cosiddetti di coabitazione.

Si tratta di un meccanismo che da un lato stabilisce la dipendenza del governo nei confronti del parlamento, perché il parlamento può scacciare il governo in carica e costituirne uno nuovo, dall'altro però stabilisce la dipendenza del parlamento nei confronti del governo, perché è il governo che, grazie alla sua responsabilità politica, fino a che resta in carica, guida ed orienta anche il parlamento.

Parallelamente, in modo diverso, il gioco dei pesi e contrappesi si manifesta negli Usa. In questo Paese, e cioè nella forma paradigmatica di governo presidenziale, a garanzia e riprova della totale indipendenza di ordine costituzionale tra Congresso e Presidente degli Usa, né il Congresso può determinare la fine anticipata del mandato presidenziale (l'impeachment è uno strumento di ordine penale e non politico), né il Presidente può determinare lo scioglimento anticipato di una delle due Camere.

Il progetto di riforma costituzionale sul quale siamo chiamati a votare, con un unicum nella storia costituzionale di Paesi comparabili al nostro, costruisce in modo ossessivo e sistematico un rapporto nel quale l'assemblea rappresentativa del popolo dipende totalmente dal Primo ministro eletto direttamente anch'esso dal corpo elettorale.
Comincio con l'unico caso nel quale sembra, e qualcuno sostiene, che si abbia ancora una dipendenza del Primo ministro, e con lui dell'organo Governo, dalla assemblea. Si tratta del caso previsto dal quinto comma dell'art. 94 (seguo la numerazione finale del testo proposto).

E' previsto che la Camera determini la decadenza del Primo ministro e non venga contestualmente sciolta se si danno tutte le seguenti condizioni: 1) la mozione di sfiducia deve essere approvata col voto determinante (e cioè non integrabile da altri deputati della minoranza) dei soli deputati facenti parte della originaria maggioranza; 2) la mozione deve essere approvata con la maggioranza assoluta calcolata sui componenti della Camera.

E' evidente che si tratta di una foglia di fico per nascondere la portata, questa sì effettiva e dirompente, delle altre regole in materia: immaginare un primo ministro eletto direttamente dal corpo elettorale che ha perso durante la sua carica tutti i suoi deputati, cosicché diventa necessario per la sua originaria maggioranza designare compatta un nuovo capo, significa prendere per i fondelli qualunque persona di buon senso.

L'ipotesi descritta nella disposizione sopra esaminata si applicherà solo nel caso, improbabile per non dire impossibile, di un primo ministro divenuto pazzo e irresponsabile: essa non disciplina un meccanismo costituzionale normale, ma si preoccupa di un caso assolutamente anormale, improbabile, talmente eccezionale da rimanere sullo sfondo come ipotesi di scuola.

Vediamo allora come funziona il meccanismo normale: il Presidente della Repubblica deve sciogliere la Camera (è un atto dovuto) nei casi seguenti: 1) se lo chiede il Primo ministro, "che ne assume la esclusiva responsabilità", come dice il testo, per ribadire, oltre ogni dubbio, che la decisione spetta solo a lui; 2) nel caso di morte o impedimento permanente del Primo ministro; 3) nel caso di dimissioni del Primo ministro, quali che siano le ragioni che lo hanno indotto a dimettersi; 4) nel caso in cui il Primo ministro abbia posto la questione di fiducia, e la maggioranza originaria della Camera (si noti bene) abbia votato in senso negativo (questa ipotesi è una variante della precedente, perché un tale voto negativo della maggioranza originaria determina di diritto l'obbligo di dimissioni del Primo ministro e il conseguente scioglimento della Camera).

Anche in questi quattro casi si applica, stando alla lettera del testo, il meccanismo prima esaminato a proposito della mozione di sfiducia che eventualmente la Camera volesse approvare contro il Primo ministro.

Se il Primo ministro chiede lo scioglimento, oppure muore, oppure è impedito permanentemente, oppure si è dimesso (o spontaneamente o perché è obbligato a dimettersi in caso di sconfitta sulla questione di fiducia), la maggioranza originaria della Camera può evitare, entro venti giorni, lo scioglimento della Camera purché si diano le stesse condizioni prima esaminate, e cioè: 1) la designazione di un nuovo primo ministro; 2) il voto favorevole dei soli deputati della originaria maggioranza, con appello nominale; 3) il raggiungimento della maggioranza assoluta.

Un meccanismo, come già detto, talmente improbabile da essere di fatto impossibile e dunque una foglia di fico per nascondere le altre ipotesi nelle quali il potere del Primo ministro nei confronti della Camera, ed anzitutto della originaria maggioranza, è effettivo, garantito, totale.

La dipendenza della Camera dalla volontà politica del Primo ministro è nei fatti assoluta, senza alcun controllo o contrappeso degno di questo nome. Si noti bene: è assoluto non per ragioni politiche reali, e cioè perché effettivamente il primo ministro gode di tanta autorevolezza da ottenere spontaneamente il consenso dei deputati della maggioranza, ma perché garantito da regole costituzionali rigide, quali che siano le intenzioni e le propensioni politiche dei deputati.

C'è da chiedersi a questo punto che senso ha spendere tanti milioni di euro per un apparato costoso e complesso come quello della Camera se qualunque decisione significativa è e resta quella del solo Primo ministro, alla quale o la maggioranza originaria dà l'assenso o viene mandata a casa; come è possibile immaginare una qualche dialettica tra Primo ministro e Camera se le minoranze non contano letteralmente nulla (il loro voto nelle questioni decisive prima descritte è come se non esistesse, e dunque nei fatti non conta mai ogni qual volta c'è un qualche dissenso con la maggioranza, e cioè quasi sempre), e la maggioranza sa che in ogni momento il Primo ministro può determinare la fine della assemblea, cosicché la sua presunta libertà di decisione esiste solo nei limiti e nei casi nei quali il Primo ministro benevolmente la permette.

Date queste regole, a che serve un parlamento? A spendere tanti soldi per vedere i presunti rappresentati del popolo che, se maggioranza, dicono servilmente sempre sì alle decisioni del capo, oppure, se perpetuamente e sempre minoranze, dicono inutilmente no e spendono pateticamente i loro discorsi inutili? Tutto si riduce ogni cinque anni, o quando piacerà al capo, a scegliere un nuovo capo oppure a riconfermare il sostegno plebiscitario al vecchio capo? A questo si riduce la democrazia?

Io non conosco mostri costituzionali simili a questo, e non li conosco e credo che nessuno possa conoscerli perché con questa scandalosa proposta vengono negati due secoli e passa di costituzionalismo. Da Locke e Montesqiueu in poi c'è un filo rosso costante che segna il costituzionalismo moderno, liberale o democratico o liberaldemocratico che sia: la divisione dei poteri, e cioè un principio in base al quale i poteri hanno da essere più di uno e nessuno deve prevalere sugli altri, affinché il potere arresti il potere quando questo deborda, e vi siano pesi e contrappesi, e venga impedita la concentrazione del potere politico in un solo organo.

Questo è stato e resta il compito di tutte le costituzioni (e qui possiamo anche tralasciare l'aggettivo moderne, perché non per caso le costituzioni scritte cominciano con la divisione dei poteri, e quindi sono moderne per definizione).

Invece il testo che ci viene proposto, per quanto riguarda l'indirizzo politico nazionale e la conseguente attività legislativa e amministrativa, conosce un solo potere senza alcun contrappeso: quello del Primo ministro, che comanda a suo piacimento sulla assemblea rappresentativa.

Per raggiungere questo risultato e blindarlo contro ogni possibile limite (e cioè contro un qualunque potere di controllo di qualcuno sul Primo ministro) viene inventata ed introdotta una disposizione che, per quanto pensata, scritta e difesa dai redattori e dalla maggioranza parlamentare trascorsa, appare incredibile e ancora oggi mi stropiccio gli occhi per convincermi che esiste effettivamente: i parlamentari non sono più eguali, e cioè egualmente rappresentativi della Nazione (come pure continua ipocritamente a proclamare l'art. 67, con una contraddizione evidente all'interno del medesimo testo), ma si dividono in parlamentari di serie A e parlamentari di serie B: vi sono quelli che hanno il potere, alle condizioni previste, di sfiduciare il Primo ministro e sostituirlo con un altro (fermo restando che si tratta di un meccanismo apparente, ed apparente proprio perché limita questa possibilità solo ad alcuni parlamentari e la nega agli altri), e tutti gli altri che invece non hanno questo potere, qualunque cosa decidano, perché i loro voti non contano nulla, è come se non esistessero.

Ma anche i partiti, le formazioni sociali, i cittadini si dividono in forze di serie A e forze di serie B: stanno nella serie A quelle che hanno indovinato il capo vittorioso, vengono condannate alla serie B quelli che hanno sbagliato cavallo. Ne viene sconvolta ogni possibile dinamica democratica: per cinque anni (o per il periodo minore che il Primo ministro deciderà sovranamente) una maggioranza coatta, che deve votare compatta dietro il suo capo, può fare quello che vuole, senza alcun contrappeso delle minoranze, e può acquisire nei cinque anni, con tutti quegli infiniti modi di cui sono piene le cronache (a cominciare dall'uso partigiano delle risorse pubbliche), tanto di potere da rendere illusorio ogni ricambio.

Se poi comunque ricambio ci sarà ugualmente, si tratterà di passare da un dittatore eletto ad un altro dittatore eletto: la vita politica resta quella di prima, e cioè ingessata e bloccata.

Il colpo mortale maggiormente distruttivo viene portato alla partecipazione politica di massa. Che la Costituzione originaria avesse (e continui ad avere in alcuni articoli della prima parte, a cominciare dal fondamentale art. 49, sulla partecipazione di tutti i cittadini, mediante i partiti, alla determinazione della politica nazionale) come valore fondamentale quello della partecipazione è troppo noto per avere bisogno qui di una ulteriore illustrazione.

Che la partecipazione attiva, consapevole, organizzata, capillare, continua, sia un risultato difficile, che molteplici fattori tendono a distruggere è altrettanto noto. Che il diritto, e le costituzioni in particolare, possano assecondare e favorire (e mai garantire) la partecipazione, o viceversa avversarla, renderla difficile, ostacolarla, è altrettanto noto.

La riforma che ci viene proposta è la più distruttiva che io conosca rispetto al valore della partecipazione: esaltando l'uomo della provvidenza, e cioè il duce elettivo, riduce il popolo ad una massa amorfa che ogni cinque anni, con i suoi applausi, conferma il vecchio duce o ne elegge uno nuovo.

Strettamente legata alla elezione diretta di un tale Primo ministro, ed altrettanto nemica della partecipazione, è la legislazione elettorale che implicitamente, ma necessariamente, il nuovo testo richiede. Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: nella riforma non viene detto esplicitamente a quali principi si deve attenere la legge elettorale, ma tutte le disposizioni sul Primo ministro e sulla individuazione della maggioranza nelle elezioni comportano che solo un tipo di sistema elettorale è possibile, e tutti gli altri sono vietati.

Deve essere un sistema elettorale che lega strettamente la elezione del Primo ministro alla elezione della sua maggioranza, sia nel senso che debbono essere contestuali, sia nel senso che deve essere esplicito e vincolante il legame tra candidato a Primo ministro e coalizioni che lo sostengono, sia nel senso che il voto al Primo ministro non è scindibile da quello alla coalizione che lo sostiene, sia infine (e non va sottovalutato) che la legge elettorale deve prevedere la possibilità di coalizioni, e cioè di alleanze preventive e formalizzate tra più partiti (non potremmo avere ad es. il sistema tedesco, ma presente in quasi tutti i sistemi elettorali degni di questo nome, che prevede invece solo liste di partito).

Questo significa, contro false rappresentazioni, che il nuovo testo codifica il bipolarismo contro sia il bipartitismo sia il multipartitismo: rende in pratica impossibile il bipartitismo, perché, come è ovvio, nessun partito tenterà mai di correre da solo contro una coalizione, e tutti saranno costretti, come sta accadendo, in due coalizioni (con una totale stravolgimento della dialettica politica, nella quale col sistema delle coalizioni politicamente necessarie prevalgono ricatti e veti incrociati tra forze politiche, anche minime, che sono costrette a rimanere insieme se non vogliono perdere).

Per la stessa ragione rende impraticabile un gioco reale e produttivo del multipartitismo, perché i molti partiti sono costretti a chiudersi un non più di due coalizioni.

Il nuovo testo costituzionale rende, nella sostanza, immodificabile l'attuale legge elettorale, e questo legame tra una Costituzione, che deve durare nel tempo, ed una legge elettorale che è stata pensata in funzione di una situazione politica contingente, è uno tra non gli ultimi motivi per respingere decisamente questa riforma costituzionale, o meglio questa nuova costituzione contraria non solo a tutti i valori costituzionali della Costituzione del 1947, ma anche a qualunque valore del costituzionalismo degli ultimi due secoli e mezzo..