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Il comunicato distribuito il 29.10.03 dai Giuristi Democratici di Bologna contro l'iniziativa del Ministro della Giustizia di inviare gli ispettori e aprire un'inchiesta disciplinare nei confronti del giudice che ha emesso l'ordinanza sulla presenza del crocefisso nell'aula di due scuole materne e elementari.
IL DIRITTO CROCEFISSO
La richiesta del ministro Castelli di procedere ad un'inchiesta disciplinare contro il giudice che ha emanato l'ordinanza sull'esposizione del crocefisso è un gravissimo attentato al diritto fondamentale di ogni cittadino ad avere un giudice terzo, autonomo e imparziale.
E' un'ingerenza inammissibile nel corso di un giudizio, che è al suo momento iniziale (l'ordinanza di cui si tanto si parla è un'ordinanza provvisoria, che dovrà essere confermata o revocata da quello stesso giudice), ed è una chiara e concreta anticipazione di ciò che l'attuale maggioranza politica vorrebbe fosse possibile dopo la riforma dell'ordinamento giudiziario (che prevede l'azione disciplinare contro quei giudici che osano interpretare la legge in maniera non conforme agli orientamenti maggioritari).
Da Giustiniano a Napoleone, il sogno di ogni legislatore autoritario è quello che il giudice non possa interpretare la legge o che, se proprio lo deve fare, la interpreti rispettando ossequiosamente il volere del capo o della maggioranza del popolo (non in nome del popolo). E questo è il sogno del ministro Castelli e dell'attuale maggioranza politica.
Se questo sogno si avverasse non vedremmo più sentenze che riconoscono diritti all'inizio apparentemente controversi (si pensi al diritto al risarcimento del danno biologico o del danno indiretto). Avremmo solo giudici che interpretano e applicano la volontà della maggioranza politica in quel momento in auge. Dovremmo scordarci giudici che interpretano e applicano le leggi.
L'iniziativa del ministro Castelli non è una mera intimidazione a un magistrato o alla magistratura. E' un attentato ai diritti civili e politici dei cittadini. Nel frattempo la stragrande maggioranza dei media e degli esponenti politici, piuttosto che affrontare il rilevantissimo tema della laicità dello Stato, preferiscono toni e argomenti che fomentano intolleranza, confusione e ignoranza della vera situazione.
29.10.2003
Giuristi Democratici - Bologna
Pubblicato da Redazione 04-11-2003 23:36
Le reazioni del governo all'ordinanza del giudice abruzzese sul crocefisso ripropongono il problema del condizionamento dell'azione della magistratura.
Grande risalto è stata data alla recente notizia secondo la quale un giudice italiano ha ordinato, su iniziativa di un padre, la rimozione dei crocefissi dalle aule delle scuole frequentate da due bambini di fede islamica.
Evidentemente, la pluralità delle argomentazioni coinvolte costringono il commentatore ad una scelta di prospettiva, che qui apertamente si dichiara essere quella - e solo quella! - giuridica, rimanendo estranee tutte le considerazioni di ordine culturale, politico, religioso, antropologico, ecc.
Questi i fatti: con ricorso pendente sub n.1383/03 del ruolo generale degli affari contenziosi del Tribunale dell'Aquila il ricorrente promuove avverso un istituto comprensivo di scuola materna ed elementare ed avverso il ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, una azione cautelare con la quale viene chiesta in via d'urgenza la rimozione dei crocefissi dalle aule frequentate dai propri figli, uno alle materne e l'altro alle elementari. Azione cautelare che, come è noto, ha la funzione di ovviare i pericoli che, durante il tempo occorrente per ottenere tutela giurisdizionale, possono comprometterne il risultato.
Il giudice adito, con una ordinanza che invito a leggere per maggiore cognizione di causa ma anche perché esemplare nel prendere in considerazione le ragioni di tutti i coinvolti (quanti sanno che il giudice respinge anche parte delle domande versate in causa?!), esegue un suo dovere, chiamato dovere decisorio.
Chi avrà la pazienza di leggere l'ordinanza di cui si tratta, potrà verificare che il giudice non nega il ruolo culturale e storico del cattolicesimo, ma accerta che in un caso, quello del bambino alla scuola elementare, siano superate dal nuovo concordato entrato in vigore nel 1985 le norme regolamentari che imponevano l'esposizione del crocefisso nelle aule (Regio Decreto 26 aprile 1928, n.1297 rubricato Regolamento generale sul servizio dell'istruzione elementare), mentre dall'altra rileva la inesistenza di norme che impongono tale esposizione nelle scuole materne.
In ossequio all'articolo 19 della Costituzione, che stabilisce fra l'altro il principio della libertà religiosa (anche negativa), ordina dunque in via cautelare la rimozione del crocefisso.
Detta decisione non è dunque il frutto di una posizione di principio di questo o quel magistrato, cosa ovviamente - questa si! - inaccettabile: è il frutto di un contraddittorio processuale di cui faceva parte, quale garanzia di esposizione compiuta di tutte le ragioni, anche l'Avvocatura dello Stato, è il risultato di una difficile mediazione tra le molte norme, talora contrastanti, che disciplinano la materia (e che, sia detto, spetterebbe al Parlamento riordinare).
Che la questione della legittimità dell'esposizione del crocefisso non sia poi così scontata lo dimostrano non solo le numerosissime e contrastanti pronunce giudiziali in tema (ad esempio, la Cassazione nel 2000 ha rivista la propria posizione ritenendo la presenza di un simbolo o immagine religiosa nel seggio elettorale contraria al principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo), ma anche il fatto che lo stesso Ministero della (allora) Pubblica Istruzione si è interrogato circa la legittimità dell'esposizione del crocefisso nelle aule all'indomani della legge di modifica del concordato del 1985.
Il giudice allora decise che non vi era contrasto fra esposizione del crocifisso ed abrogazione del cattolicesimo come religione di stato, ma - a distanza di quasi 20 anni - il giudice abruzzese, attraverso una dettagliata analisi del significato del principio di uguaglianza in una società multietnica, perviene ad una decisione diversa. E a tale decisione può pervenire perché al giudice la legge attribuisce il potere di applicare le norme di diritto che meglio ritiene meglio adattabili al caso concreto (cd. jura novit curia).
Male fece il giudice a rivendicare la sua libertà di giudizio: oltre ad una mobilitazione dei mass media, si minaccia il blocco delle attività scolastiche, ed il Ministro della Giustizia ordina una ispezione (punitiva?).
Al di là della condivisibilità o meno della decisione del magistrato, e al di la di ogni considerazione sull'esito finale della controversia (seguiranno infatti ancora giudizio di merito di primo grado, ma anche giudizio d'appello, ecc.) proprio l'ennesima ingerenza governativa con la funzione giurisdizionale crea il maggiore imbarazzo, contravvenendo a quella separazione dei poteri secondo Montesquieu unica garanzia per la libertà del cittadino.
Scrive il filosofo nell'Esprit des lois (1748): "Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti e le liti tra i privati."
Ad ognuno il suo, dunque: il lavoro non mancherebbe.
Avv. Nicola Canestrini
Giuristi Democratici, Rovereto TN
Si veda anche il commento de Dr. De Oto al parere dellßavvocatura dello stato sub: www.filodiritto.com/diritto/pubblico/ecclesiastico/cstatoparereufficipubbliciarticolodeoto.htm
Pubblicato da Redazione 21-01-2004 13:06
L'ordinanza con cui il T.A.R. Veneto ha rimesso avanti alla Corte Costituzionale la questione
Ric. n. 2007/02 Sent. n. 56/04
REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima Sezione, con l'intervento dei signori magistrati:
Stefano Baccarini Presidente
Marco Buricelli Consigliere
Angelo Gabbricci Consigliere - relatore
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso n. 2007/02, proposto da Soile Lautsi, in proprio e quale genitore dei minori Dataico Albertin e Sami Albertin, rappresentata e difesa dall'avv. L. Ficarra, con domicilio presso la Segreteria del T.A.R. Veneto, giusta art. 35 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054,
contro
l'Amministrazione dell'istruzione, dell'università e della ricerca, in persona del ministro pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, per legge domiciliataria,
per l'annullamento della decisione assunta il 27 maggio 2002 dal Consiglio di Istituto dell'I.C. "Vittorino da Feltre" di Abano Terme (Padova) - verbale n. 5 - nella parte in cui delibera di lasciare esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi;
nonché per l'annullamento degli atti presupposti e conseguenti, comunque connessi con quello impugnato.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Amministrazione dell'Istruzione;
viste le memorie prodotte dalle parti;
visti gli atti tutti di causa;
uditi nella pubblica udienza del 13 novembre 2003 - relatore il consigliere avv. Angelo Gabbricci - l'avv. Ficarra per la ricorrente e l'avv. dello Stato Gasparini per l'Amministrazione resistente;
ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
Massimo Albertin e Soile Tuulikki Lautsi, quest'ultima nata nella città di Sipoo, in Finlandia, sono i genitori di Dataico e Sami Albertin, nati rispettivamente nel 1988 e nel 1990, e iscritti nel 2002 rispettivamente alla III ed alla I classe dell'istituto comprensivo statale "Vittorino da Feltre" di Abano Terme (Padova).
Il 22 aprile 2002, nel corso di una seduta del consiglio d'istituto - come si legge nel verbale della riunione - lo stesso Massimo Albertin, "in riferimento all'esposizione di simboli religiosi" all'interno della scuola, ne propose la rimozione; dopo un'approfondita discussione, la decisione fu rinviata alla seduta del 27 maggio, quando fu posta in votazione ed approvata una deliberazione che proponeva "di lasciare esposti i simboli religiosi".
Soile Tuulikki Lautsi, in proprio e quale genitore esercente la potestà sui figli minori, ha impugnato tale determinazione con il ricorso in esame; nel successivo giudizio si è costituito il Ministero dell'istruzione, concludendo per l'inammissibilità, l'improcedibilità e, comunque, per l'infondatezza del ricorso.
DIRITTO
1.1. Il ricorso censura la deliberazione impugnata anzitutto per violazione dei principi d'imparzialità e di laicità dello Stato, e segnatamente del secondo, quale principio supremo dell'ordinamento costituzionale, avente priorità assoluta e carattere fondante, desumibile insieme dall'art. 3 della Costituzione, che garantisce l'uguaglianza di tutti i cittadini, e dal successivo art. 19, il quale riconosce la piena libertà di professare la propria fede religiosa, includendovi anche la professione di ateismo o di agnosticismo: principio confermato dall'art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce la libertà di manifestare "la propria religione o il proprio credo".
Il rammentato principio di laicità, prosegue la ricorrente, precluderebbe l'esposizione dei crocefissi e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, disposta in violazione della "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose": l'impugnata deliberazione del consiglio della scuola "Vittorino da Feltre" costituirebbe "aperta e palese violazione dei suesposti principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico".
1.2. Inoltre, continua la Lautsi, la stessa deliberazione sarebbe illegittima anche per eccesso di potere sotto il profilo della sua contraddittorietà logica.
Si desume invero dal verbale della seduta, in cui il provvedimento fu assunto, che uno dei membri dell'organo aveva espresso l'auspicio per cui "tale problema possa incentivare una maggiore educazione all'integrazione religiosa e al rispetto della libertà di idee e di pensiero per tutti": ma, secondo la Lautsi, non si potrebbe affermare ciò e nel contempo negarlo, "dicendo che nella scuola debbono essere presenti i simboli religiosi appartenenti peraltro ad una sola determinata confessione religiosa".
2.1. Il Ministero dell'istruzione, nel costituirsi, ha sollevato una prima eccezione di nullità del ricorso introduttivo, perché sottoscritto soltanto da uno dei genitori dei minori Dataico e Sami Albertin, mentre l'art. 320 c.c. prescrive che la rappresentanza legale dei figli spetta congiuntamente ad entrambi: l'eccezione è tuttavia infondata.
La norma citata stabilisce bensì che i genitori congiuntamente rappresentano i figli in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni, ma soggiunge che possono essere compiuti disgiuntamente da ciascuno di essi gli atti di ordinaria amministrazione, e, tra questi, ad avviso del Collegio, rientra l'esercizio, in nome e per conto dei figli minori, di azione per la tutela di situazioni sostanziali che non abbiano direttamente o indirettamente contenuto patrimoniale, ovvero comunque una potenzialità lesiva per la sfera giuridica patrimoniale del minore: certamente il ricorso in questione non presenta un siffatto contenuto, per cui esso ben poteva essere validamente proposto da uno soltanto dei genitori.
2.2.1. L'Amministrazione pone altresì un dubbio sulla giurisdizione del giudice adìto, che il Collegio non ritiene peraltro di condividere.
L'atto impugnato, infatti, si riferisce ad un arredo scolastico, seppure certamente sui generis, ed è dunque espressione di una potestà organizzativa che appartiene all'Amministrazione scolastica, a fronte della quale i singoli utenti hanno posizioni di interesse legittimo.
2.2.2. Quest'ultima considerazione consente di respingere altresì l'ulteriore eccezione proposta dalla difesa erariale, per cui il ricorso non sarebbe stato notificato a quei genitori ed allievi dell'istituto "Vittorino da Feltre", i quali vogliono mantenere nelle aule scolastiche il crocifisso - che è l'unico simbolo religioso colà attualmente presente - e che per questo avrebbero la qualità di controinteressati.
Invero, nel giudizio amministrativo la posizione di controinteressato va riconosciuta - con il conseguente onere di notificazione del ricorso introduttivo - ai soggetti che si trovano in una posizione antitetica a quella del ricorrente, traendo utilità propria e diretta dal provvedimento impugnato, e sono facilmente individuabili in base a questo: in specie manca senz'altro questo secondo requisito, poiché la ricorrente (come d'altronde la stessa resistente) non era certamente in grado di stabilire, nel momento in cui ha proposto il ricorso, chi condividesse la decisione assunta dal consiglio d'istituto e qui impugnata.
2.3.1. Ancora, lo stesso Ministero sostiene di aver diramato, sia pure dopo l'avvio del processo, una circolare, datata 3 ottobre 2002, in cui si inviterebbero i dirigenti scolastici ad assicurare l'esposizione del crocefisso nella aule scolastiche: e tale disposizione, secondo la difesa erariale, "sarebbe comunque ostativa alla possibilità per la parte ricorrente, di ottenere la rimozione del simbolo cristiano".
2.3.2. Si deve peraltro anzitutto osservare come la circolare non risulti essere stata ufficialmente pubblicata, né comunicata direttamente alla ricorrente, e neppure prodotta in giudizio: sicché neppure il Collegio è in grado di valutarne la rilevanza, e l'effettivo valore vincolante.
La stessa circolare, comunque, non costituirebbe in ogni caso, per ammissione della stessa Amministrazione resistente, un atto presupposto del provvedimento gravato, né ciò sarebbe possibile, essendo a questo successiva.
Non si potrebbe dunque far carico alla ricorrente di non averla impugnata con il ricorso introduttivo, né di non averla successivamente gravata mediante motivi aggiunti, come pure si sostiene nel controricorso, non trattandosi di un atto appartenente allo stesso procedimento ed adottato "tra le stesse parti" (art. 21, I comma, l. 1034/71): si deve quindi concludere che, allo stato, la Lautsi conserva integro il proprio interesse all'annullamento della deliberazione 27 maggio 2002, la quale incide direttamente sulla sua posizione soggettiva d'interesse legittimo.
3.1. Di ben maggiore spessore è viceversa l'ulteriore difesa dell'Amministrazione.
Essa rileva che l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è espressamente prescritta da due disposizioni, l'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, recante disposizioni sull'ordinamento interno degli istituti di istruzione media, e dall'art. 119 del RD. 26 aprile 1928 n. 1297 (e, in particolare, nella Tabella C allo stesso allegata), riferito agli istituti di istruzione elementare.
Tali norme, sebbene risalenti, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere 27 aprile 1988 n. 63/1988, reso dalla II Sezione del Consiglio di Stato: e, sebbene non espressamente richiamate nell'atto impugnato, ne fonderebbero la legittimità, e dovrebbero dunque condurre alla reiezione del ricorso proposto.
3.2. Invero, va anzitutto riconosciuto che le disposizioni richiamate dall'Amministrazione resistente costituiscono, per tali, pertinente ed adeguato fondamento giuridico positivo del provvedimento gravato, seppure limitatamente ad un particolare simbolo religioso, il crocifisso, che è, peraltro, l'unico cui il ricorso si riferisce esplicitamente e, con ragionevole certezza, quello cui si vuole riferire il provvedimento impugnato.
Il citato art. 118 del r.d. 965/24 - incluso nel capo XII intitolato "dei locali e dell'arredamento scolastico" - dispone che ogni istituto d'istruzione media "ha la bandiera nazionale; ogni aula, l'immagine del Crocifisso e il ritratto del Re"; l'art. 119 del r.d. 1297/28, a sua volta, stabilisce che gli arredi delle varie classi scolastiche sono elencati nella tabella C, allegata allo stesso regolamento: e tale elencazione include il crocifisso per ciascuna classe elementare.
Tali previsioni, anteriori al Trattato ed al Concordato tra la Santa Sede e l'Italia - cui fu data esecuzione con la l. 27 maggio 1929, n. 810 - non appaiono contrastare con le disposizioni contenute in quegli atti pattizi, in cui nulla viene stabilito relativamente all'esposizione del crocifisso nelle scuole, come in qualsiasi ufficio pubblico; inoltre, come rileva il Consiglio di Stato nel citato parere n. 63/1988, le modificazioni apportate al Concordato con l'Accordo, ratificato e reso esecutivo con la l. 25 marzo 1985, n. 121, "non contemplando esse stesse in alcun modo la materia de qua, così come nel Concordato originario, non possono influenzare, né condizionare la vigenza delle norme regolamentari di cui trattasi", mancando i presupposti di cui all'art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale.
In particolare, prosegue lo stesso parere, "non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute né può configurarsi una nuova disciplina dell'intera materia, già regolata dalle norme anteriori": sicché, in conclusione, poiché le disposizioni in parola "non attengono all'insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, deve ritenersi che esse siano tuttora legittimamente operanti".
3.3. Orbene, il Collegio a sua volta deve riconoscere che le due disposizioni in questione non sono state abrogate, né espressamente, né implicitamente, da norme di grado legislativo ovvero regolamentare.
Il r.d. 965/24 ed il r.d. 1297/28, infatti, costituiscono certamente fonti regolamentari, come si desume, anzitutto, da specifiche previsioni che li autoqualificano per tali (ad es. l'art. 144 del r.d. 965/24, e la stessa intestazione per il r.d. 1297/28); a ciò si aggiunga che, nei rispettivi preamboli, vengono richiamati atti di grado sicuramente legislativo - il testo unico delle leggi sull'istruzione elementare, approvato con il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, da una parte, ed il r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, recante l'ordinamento della istruzione media, dall'altra - rispetto ai quali sono destinati ad introdurre norme attuative di dettaglio .
3.4. È tuttavia evidente che la controversia non può così ritenersi definita, poiché, attese le censure proposte, il thema decidendum si sposta dal contrasto tra il provvedimento impugnato e l'invocato principio di laicità a quello dell'illegittimità costituzionale delle due citate disposizioni: questione che, in generale, può essere sollevata d'ufficio innanzi al Giudice delle leggi per quelle disposizioni che costituiscano presupposto di legittimità dell'atto impugnato.
4.1. Ora, tenuto anche conto che il provvedimento è stato emesso dal consiglio d'istituto d'un istituto comprensivo - che, cioè, riunisce la scuola elementare e media - non pare dubbio che la questione di costituzionalità, riferita sia all'art. 118 del r.d. 965/24 che all'art. 119 del r.d. 1297/28, abbia qui rilevanza in quanto su queste disposizioni è fondato il potere esercitato con il provvedimento impugnato.
Per quanto invece concerne la rilevanza della questione sotto il profilo della natura giuridica delle disposizioni oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, ferma, secondo l'insegnamento della Corte, l'inammissibilità del controllo diretto dei regolamenti da parte della Corte costituzionale, ne è invece ammissibile il controllo indiretto (cfr. le sentenze 30 dicembre 1994, n. 456, e 20 dicembre 1988, n. 1104), nei casi in cui una disposizione di legge "trova applicazione attraverso le specificazioni espresse dalla normativa regolamentare, i cui contenuti integrano il precetto della norma primaria" (Corte cost., 456/94 cit.).
4.2. Orbene, ad avviso del Collegio, tale relazione sussiste tra le norme regolamentari in questione e quelle primarie di cui le prime costituiscono specificazione: il r.d. 6 maggio 1923, n. 1054 quanto all'istruzione media, il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577 quanto all'istruzione elementare, attualmente vigenti nella formulazione di cui al lgs. 16 aprile 1994, n. 297, mediante il quale è stato approvato il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado (art. 676 d. lgs. cit.).
Invero, rammentato nuovamente che il crocifisso costituisce, secondo le disposizioni regolamentari in questione, un arredo scolastico, va anzitutto ricordato come l'art. 159, I comma, del d. lgs. 297/94, corrispondente all'art. 55 del r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, disponga che spetta ai comuni provvedere, tra l'altro, "alle spese necessarie per l'acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari"; per la scuola media, poi, l'art. 190 d. lgs. 297/94 cit., corrispondente all'art.103 del r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, egualmente dispone che i comuni sono tenuti a fornire, oltre ai locali idonei, l'arredamento, l'acqua, il telefono, l'illuminazione, il riscaldamento, e così via.
Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni di genere: "arredi" ovvero "arredamento", contenute negli artt. 159 e 190, concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il crocifisso: così si può senz'altro affermare che le disposizioni degli artt. 159 e 190, come specificati dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici, e per questa parte, possono formare oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi al Giudice della leggi.
4.3. V'è poi un'altra disposizione, contenuta nello stesso d. lgs. 297/94, che va considerata ai fini della rilevanza della questione, ed è l'art. 676, intitolato "norma di abrogazione", il quale dispone che "le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate".
Invero, le norme recate dall'art. 118 del r.d. 965/24 e dall'art. 119 del r.d. 1297/28 non confliggono con il testo unico, ma dovrebbero comunque ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d. lgs. 297/94 regola l'intera materia scolastica: restano dunque in vigore esclusivamente in forza dello stesso art. 676, il quale, dunque, costituisce, al pari dei richiamati artt. 159 e 190, una norma primaria attraverso la quale l'obbligo di esposizione del crocifisso conserva vigenza nell'ordinamento positivo.
5.1. Accertato così che la questione è rilevante, è ora necessario stabilire se la stessa sia o meno non manifestamente infondata.
Invero, il crocifisso rappresenta la massima icona cristiana, presente in ogni luogo di culto e più di ogni altra venerata: esso può bensì assumere ulteriori valori semantici, ma questi non possono comunque mai completamente elidere quello religioso, da cui traggono comunque giustificazione e fondamento.
La norma in questione, dunque, impone che nelle aule delle scuole elementari e medie, luoghi sicuramente pubblici, sia apposto un simbolo il quale mantiene comunque un univoco significato confessionale, per tale percepito dalla massima parte dei consociati: e non si può essere certi che una siffatta prescrizione sia compatibile con i principi stabiliti dalla Costituzione repubblicana, nell'interpretazione che la Corte ha nel tempo delineato.
5.2. Invero, la laicità dello Stato italiano - come ricorda la ricorrente - costituisce, secondo il Giudice delle leggi, un principio supremo, emergente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, e, dunque, "uno dei profili della forma di Stato delineata dalla Carta costituzionale della Repubblica", (così Corte cost., 12 aprile 1989, n. 203) e nel quale "hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse" (Corte cost., 18 ottobre 1995, n. 440).
Quale riflesso del principio di laicità (successivamente ribadito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 259/90, 195/93 e 329/97), e, più specificatamente, dell'uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 Cost.) e dell'eguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost.), "l'atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità" nei confronti di ogni fede, "senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell'adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997)" (così Corte cost., 20 novembre 2000, n. 508).
In tale contesto, credenti e non credenti si trovano "esattamente sullo stesso piano rispetto all'intervento prescrittivo, da parte dello Stato, di pratiche aventi significato religioso: esso è escluso comunque, in conseguenza dell'appartenenza della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano l'espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione" (Corte cost., 8 ottobre 1996, n. 334); mentre "valutazioni ed apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori" tra le diverse fedi, con diverse intensità di tutela, verrebbero ad incidere sulla pari dignità della persona e si porrebbero "in contrasto col principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato" (Corte cost., 14 novembre 1997, n. 329).
5.3. V' è dunque da dubitare che siano compatibili con le precedenti enunciazioni le norme dell'ordinamento generale le quali prescrivono, come detto, l'esposizione di un simbolo venerato dal cristianesimo nelle aule scolastiche, (così come lo sarebbe ogni altra disposizione che stabilisse la presenza di simboli di altre fedi): ciò non pare pienamente conciliabile con la posizione di equidistanza ed imparzialità tra le diverse confessioni che lo Stato deve comunque mantenere, tanto più che la previsione si riferisce agli spazi destinati all'istruzione pubblica, cui tutti possono accedere - ed anzi debbono, per ricevere l'istruzione obbligatoria (art. 34 Cost.) - e che lo Stato assume tra i suoi compiti fondamentali, garantendo la libertà d'insegnamento (art. 33 Cost.).
Diversamente da quanto avviene per l'insegnamento della religione, che liberamente gli studenti ed i loro genitori possono o meno accogliere - e solo così il principio di laicità dello Stato è osservato: cfr. Corte costituzionale 203/89 cit., e 14 gennaio 1991, n. 13 - la presenza del crocifisso viene obbligatoriamente imposta agli studenti, a coloro che esercitano la potestà sui medesimi e, inoltre, agli stessi insegnanti: e la norma che prescrive tale obbligo sembra così delineare una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio che, secondo i rammentati principi costituzionali, non può trovare giustificazione neppure nella sua indubbia maggiore diffusione, ciò che può semmai giustificare nelle singole scuole, secondo specifiche valutazioni, il rispetto di tradizioni religiose - come quelle legate al Natale o alla Pasqua - ma non la generalizzata presenza del crocifisso.
6. In conclusione, non appare manifestamente infondata e va sollevata questione di legittimità costituzionale, per contrasto con il principio di laicità dello Stato, quale risultante dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, degli artt. 159 e 190 del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297, come specificati rispettivamente dall'art. 119 del RD. 26 aprile 1928, n. 1297 (Tabella C) e dall'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche e dell'art. 676 del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297, nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all'art. 119 del RD. 26 aprile 1928, n. 1297 (Tabella C) ed all'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965.
Deve, pertanto, disporsi la sospensione del presente giudizio e la rimessione della questione all'esame della Corte costituzionale, giusta l'art. 23, l. 11 marzo 1953, n. 87.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, I Sezione, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297, come specificati rispettivamente dall'art. 119 del RD. 26 aprile 1928, n. 1297 (Tabella C) e dall'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche e dell'art. 676 del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297, nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all'art. 119 del RD. 26 aprile 1928, n. 1297 (Tabella C) ed all'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, in riferimento al principio della laicità dello Stato e, comunque, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione.
Sospende il giudizio in corso e dispone, a cura della segreteria della Sezione, che gli atti dello stesso siano trasmessi alla Corte costituzionale per la risoluzione della prospettata questione, e che la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento della Repubblica.
Così deciso in Venezia, nella Camera di consiglio addì 13 novembre 2003.
Il Presidente L'estensore
Il Segretario
Pubblicato da Redazione 15-12-2004 14:38
ORDINANZA N.389
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Valerio ONIDA Presidente
- Carlo MEZZANOTTE Giudice
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall'art. 119 (e allegata tabella C) del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell'istruzione elementare), e dall'art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), e dell'art. 676 del predetto decreto legislativo n. 297 del 1994, promosso con ordinanza del 14 gennaio 2004 dal TAR per il Veneto sul ricorso proposto da Soile Lautsi in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale contro il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, iscritta al n. 433 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, edizione straordinaria, del 3 giugno 2004.
Visti l'atto di costituzione di Soile Lautsi nonché gli atti di intervento di Paolo Bonato ed altro e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 26 ottobre 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;
uditi l'avvocato Massimo Luciani per Soile Lautsi, l'avvocato Franco Gaetano Scoca per Paolo Bonato ed altro e l'avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 14 gennaio 2004, pervenuta a questa Corte il 20 aprile 2004, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, nel corso di un giudizio per l'impugnazione di una deliberazione del consiglio di istituto di una scuola, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento al principio di laicità dello Stato, e, "comunque", agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, degli artt. 159 e 190 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), "come specificati", rispettivamente, dall'art. 119 (e tabella C allegata) del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell'istruzione elementare), e dall'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), "nella parte in cui includono il Crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche", nonché dell'art. 676 del medesimo d.lgs. n. 297 del 1994 "nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni" di cui ai predetti art. 119 (e tabella C allegata) del r.d. n. 1297 del 1928 e art. 118 del r.d. n. 965 del 1924;
che l'impugnato art. 159 del d.lgs. n. 297 del 1994 stabilisce fra l'altro, al comma 1, che "spetta ai Comuni provvedere (...) alle spese necessarie per l'acquisto, la manutenzione, il rinnovamento (...) degli arredi scolastici" nelle scuole elementari, mentre l'art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928 stabilisce che "gli arredi, il materiale didattico delle varie classi e la dotazione della scuola sono indicati nella tabella C allegata", la quale, nell'elencare gli arredi e il materiale occorrente nelle varie classi, include al n. 1, per ogni classe, il Crocifisso;
che, a sua volta, l'impugnato art. 190 del d.lgs. n. 297 del 1994 stabilisce fra l'altro, al comma 1, che "i Comuni sono tenuti a fornire (...) l'arredamento" dei locali delle scuole medie, mentre l'art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 recita che "ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l'immagine del Crocifisso e il ritratto del Re";
che l'impugnato art. 676 del d.lgs. n. 297 del 1994 stabilisce che le disposizioni non inserite nel testo unico "restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate";
che il Tribunale remittente premette che le disposizioni citate del r.d. n. 1297 del 1928 e del r.d. n. 965 del 1924 costituirebbero adeguato fondamento giuridico del provvedimento impugnato nel giudizio a quo; sarebbero tuttora in vigore in quanto non abrogate per incompatibilità dalle disposizioni dei Patti Lateranensi cui si è data esecuzione con la legge 27 maggio 1929, n. 810, né da quelle dell'Accordo di modifica di detti Patti reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121; non sarebbero incompatibili infine con il testo unico approvato con il d.lgs. n. 297 del 1994, né sarebbero state abrogate per nuova disciplina dell'intera materia in quanto l'impugnato art. 676 del testo unico medesimo dispone che restino salve le norme preesistenti non inserite in esso e non incompatibili con le disposizioni del medesimo testo unico; che dette disposizioni sarebbero destinate ad introdurre norme attuative di dettaglio rispetto ad atti legislativi, e cioè, rispettivamente, il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, al cui art. 55 corrisponde oggi l'art. 159, comma 1, del d.lgs. n. 297 del 1994, e il r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, al cui art. 103 corrisponde oggi l'art. 190 del d.lgs. n. 297 del 1994;
che il giudice a quo si pone il problema della costituzionalità delle disposizioni regolamentari citate, da cui discenderebbe l'obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, e ritiene che queste, pur non potendo essere oggetto diretto di controllo di costituzionalità, dato il loro rango regolamentare, sarebbero invece suscettibili di controllo indiretto, in quanto specificano e integrano i disposti legislativi impugnati degli artt. 159 e 190 del d.lgs. n. 297 del 1994, il cui art. 676 a sua volta costituirebbe una norma primaria "attraverso la quale l'obbligo di esposizione del Crocifisso conserva vigenza nell'ordinamento positivo";
che, in punto di non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale remittente sostiene che il Crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale; e che l'imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato, desunto da questa Corte dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; e che la presenza del Crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio;
che si è costituita la parte privata ricorrente nel giudizio a quo, concludendo per l'accoglimento della questione;
che, secondo la parte, l'obbligatoria esposizione del Crocifisso nelle aule violerebbe il dovere di equidistanza dello Stato rispetto alle varie confessioni e contraddirebbe l'esigenza di uno "spazio pubblico neutrale" in cui non potrebbe trovare posto un simbolo religioso; non si potrebbe attribuire al Crocifisso il carattere di un simbolo genericamente civile e culturale, essendo innegabile la sua valenza religiosa, e mancando del resto ogni base costituzionale per poter fare del Crocifisso un simbolo dell'unità della nazione al pari della bandiera; non sarebbe praticabile, infine, nemmeno una soluzione che postuli la permanenza dell'esposizione del Crocifisso salvo che qualcuno degli alunni ritenga di esserne leso nella propria libertà religiosa, poiché sarebbe violato comunque il principio oggettivo di laicità, né si potrebbe costringere il singolo a opporsi apertamente alla eventuale volontà maggioritaria del gruppo sociale di appartenenza;
che sono intervenuti altresì, con unico atto, il sig. Paolo Bonato, in proprio e quale genitore di un'alunna della stessa scuola, e il sig. Linicio Bano, in qualità di presidente dell'associazione italiana genitori di Padova, concludendo per la inammissibilità e comunque per la infondatezza della questione;
che gli intervenienti, affermata la propria legittimazione ad essere presenti nel giudizio in quanto controinteressati nel giudizio a quo, pur se non evocati in esso, nonché in quanto titolari di un interesse direttamente inerente al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio medesimo, negano che l'esposizione del Crocifisso nelle aule leda il principio di laicità, il quale non implicherebbe indifferenza dello Stato rispetto alle religioni, e non impedirebbe l'esposizione di un simbolo che rappresenta una parte integrante dell'identità culturale e storica del popolo italiano;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'inammissibilità e comunque per l'infondatezza della questione;
che l'Avvocatura erariale eccepisce anzitutto il difetto di rilevanza della questione, in quanto, alternativamente, il giudizio davanti al TAR non sarebbe stato proponibile per difetto di contraddittorio e di legittimazione del ricorrente, ovvero il TAR sarebbe carente di giurisdizione;
che, nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio sostiene che le norme legislative impugnate e le norme regolamentari richiamate dal remittente non stabiliscono alcun obbligo di esposizione del Crocifisso, e che, in assenza di un obbligo legale di esposizione, il problema sarebbe quello di verificare se le norme costituzionali consentano l'esposizione di quel simbolo del cattolicesimo: esposizione che non sarebbe in contrasto con la laicità dello Stato e sarebbe coerente sia con l'art. 7 della Costituzione, sia con il riconoscimento, contenuto nell'art. 9 dell'accordo di revisione del concordato reso esecutivo con la legge n. 121 del 1985, secondo cui i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano;
che nella memoria presentata in vista dell'udienza l'Avvocatura erariale argomenta nel senso della legittimità costituzionale della presenza del Crocifisso nelle aule, quale "evenienza naturale" nell'ordinario svolgimento della vita scolastica: il Crocifisso sarebbe bensì anche un simbolo religioso, ma sarebbe "il vessillo della Chiesa cattolica, unico alleato di diritto internazionale" dello Stato nominato dalla Costituzione all'art. 7, e dunque sarebbe da considerarsi alla stregua di un simbolo dello Stato di cui non si potrebbe vietare l'esposizione, al pari della bandiera e del ritratto del Capo dello Stato.
Considerato che l'intervento spiegato nel giudizio è stato ammesso dalla Corte con ordinanza pronunciata in udienza, in quanto la posizione sostanziale fatta valere dal sig. Paolo Bonato, in proprio e in qualità di genitore di un'alunna, è qualificata in rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità, dovendosi in questa sede precisare che la legittimazione ad intervenire non si estende all'altro firmatario dell'unico atto di intervento, sig. Linicio Bano, in quanto presidente dell'associazione italiana genitori di Padova;
che il remittente impugna gli articoli 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, sul presupposto che essi, "come specificati", rispettivamente, dall'art. 119 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, e dall'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, forniscano fondamento legislativo ad un obbligo - contestato dal ricorrente per contrasto con il principio di laicità dello Stato - di esposizione del Crocifisso in ogni aula scolastica delle scuole elementari e medie; e impugna altresì l'art. 676 del medesimo d.lgs. n. 297 del 1994 sul presupposto che a tale disposizione - che sancisce l'abrogazione delle sole disposizioni non incluse nel testo unico che risultino incompatibili con esso - debba farsi risalire la permanente vigenza delle due norme regolamentari citate, dopo l'emanazione dello stesso testo unico;
che tali presupposti sono però erronei;
che, infatti, gli articoli 159 e 190 del testo unico si limitano a disporre l'obbligo a carico dei Comuni di fornire gli arredi scolastici, rispettivamente per le scuole elementari e per quelle medie, attenendo dunque il loro oggetto e il loro contenuto solo all'onere della spesa per gli arredi;
che, pertanto, non sussiste fra le due menzionate disposizioni legislative, da un lato, e le disposizioni regolamentari richiamate dal remittente, dall'altro lato, quel rapporto di integrazione e specificazione, ai fini dell'oggetto del quesito di costituzionalità proposto, che avrebbe consentito, a suo giudizio, l'impugnazione delle disposizioni legislative "come specificate" dalle norme regolamentari;
che, a differenza di quanto rilevato da questa Corte nelle sentenze n. 1104 del 1988 e n. 456 del 1994 (richiamate dal remittente) a proposito dell'ammissibilità di censure mosse nei confronti di disposizioni legislative come specificate da norme regolamentari previgenti, fatte salve dalla legge fino all'emanazione di nuovi regolamenti, nella specie il precetto che il remittente ricava dalle norme regolamentari non si desume nemmeno in via di principio dalle disposizioni impugnate degli artt. 159 e 190 del testo unico;
che, infatti, per quanto riguarda la tabella C allegata al r.d. n. 1297 del 1928, e richiamata nell'art. 119 dello stesso, essa contiene soltanto elenchi di arredi previsti per le varie classi, elenchi peraltro in parte non attuali e superati, come ha riconosciuto la stessa amministrazione;
che l'assenza del preteso rapporto di specificazione è ancor più evidente per quanto riguarda l'art. 118 del r.d. n. 965 del 1924, che si riferisce bensì alla presenza nelle aule del Crocifisso e del ritratto del Re, ma non si occupa dell'arredamento delle aule, e dunque non può trovare fondamento legislativo nella - né costituire specificazione della - disposizione censurata dell'art. 190 del testo unico, volta anch'essa, come si è detto, a disciplinare solo l'onere finanziario per la fornitura di tale arredamento;
che, per quanto riguarda l'art. 676 del d.lgs. n. 297 del 1994, non può ricondursi ad esso l'affermata perdurante vigenza delle norme regolamentari richiamate, poiché la eventuale salvezza, ivi prevista, di norme non incluse nel testo unico, e non incompatibili con esso, può concernere solo disposizioni legislative, e non disposizioni regolamentari, essendo solo le prime riunite e coordinate nel testo unico medesimo, in conformità alla delega di cui all'art. 1 della legge 10 aprile 1991, n. 121, come sostituito dall'art. 1 della legge 26 aprile 1993, n. 126;
che l'impugnazione delle indicate disposizioni del testo unico si appalesa dunque il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legittimità concernente le norme regolamentari richiamate: norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretativo di questa Corte;
che, pertanto, la questione proposta è, sotto ogni profilo, manifestamente inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall'art. 119 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell'istruzione elementare), e dall'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), e dell'art. 676 del predetto d.lgs. n. 297 del 1994, sollevata, in riferimento al principio di laicità dello Stato e, comunque, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2004.
F.to:
Valerio ONIDA, Presidente e Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Allegato
ordinanza letta all'udienza del 26 ottobre 2004
ORDINANZA
Visto l'intervento spiegato in giudizio, in termini, dal Sig. Paolo Bonato e dal Sig. Linicio Bano;
considerato che la posizione sostanziale fatta valere nel presente giudizio dal Sig. Paolo Bonato in proprio e quale genitore dalla minore Laura Bonato appare qualificata in rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità.
per questi motivi
ammette l'intervento di cui in premessa.
F.to: Valerio ONIDA, Presidente
Pubblicato da Redazione 17-03-2005 14:50
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL VENETO
MEMORIA DIFENSIVA
per ***, con l'avv. Luigi Ficarra,
CONTRO
- IL MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro in carica, difeso e rappresentato dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia
- resistente -
E CONTRO
- L'ASSOCIAZIONE "***", rappresentata e difesa dagli avvocati Ivone Cacciavillani e Sergio Dal Pra'
- interveniente -
- ***, in proprio e quale genitore della minore *** ***, e ***, in qualità di Presidente della *** (***) di ***, - entrambi rappresentati e difesi dall'avv. Franco Gaetano Scoca , con domicilio presso avv. Chiara Cacciavillani
- intervenienti -
nel ricorso n. 2007/2002 - Sezione III
udienza 17 marzo 2005
* * *
1. Sull'intervento dell'Associazione "***".
Deduce l'interveniente "la carenza di giurisdizione del giudice adito in relazione al petitum"; "non potendo 'certamente' - dice - il caso (in questione) rientrare in nessuna ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo".
- Rileviamo preliminarmente che a nostro avviso l'intervento non è ammissibile, in quanto non può affermarsi che l'Associazione "***" abbia un interesse diretto nella controversia. Invero le finalità dell'associazione interveniente appaiono del tutto generiche ("la difesa dei diritti civili dei cittadini") e prive di ogni collegamento con la controversia pendente davanti al TAR. Sul punto citiamo le pronunce che seguono, riguardanti direttamente la legittimazione a ricorrere, ma i cui principi si applicano anche al caso di specie: "Una associazione che persegue finalità generali, - (come è indubbiamente la "***") - non ha legittimazione a ricorrere (ovvero, come nel caso di cui trattasi, ad intervenire) contro atti che non la ledono direttamente, ... né può in tal modo derogarsi al principio della domanda ... per instaurare una sorta di giurisdizione di diritto obiettivo attivata su azione popolare, che farebbe venir meno ogni stabilità delle situazioni giuridiche e trasferirebbe in sede giudiziaria la discussione delle scelte, spettanti alle istituzioni democratiche" (T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 28 gennaio 2003, n. 42); - "L'ordinamento giuridico italiano ammette solo in casi ben determinati la legittimazione ad agire - (ovvero, intervenire) - di enti esponenziali ......in sede giudiziale e non - (come nel caso in questione) sicuramente per mere finalità di giustizia" (T.A.R. Trentino Alto Adige Bolzano, 4 dicembre 2003, n. 511); - "E' compito dell'Autorità giudiziaria verificare se, nel caso specifico, l'ente sia o meno legittimato a ricorrere - (ovvero, intervenire) - in quanto direttamente legittimato dal legislatore o in quanto portatore di un interesse qualificato e differenziato rispetto a quello, relativo alla legalità dell'azione amministrativa, di cui sono titolari la generalità dei cittadini" (Consiglio Stato, sez. IV, 29 agosto 2002, n. 4343).
- L'eccezione è comunque improponibile ed infondata.
In merito, già nella memoria di replica depositata il 3 novembre 2003, contrastando il dubbio sollevato dall'amministrazione nella sua memoria conclusiva sulla giurisdizione del giudice adito, si era dedotto che, a norma dell'art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie "riguardanti le attività e le prestazioni .... rese nell'ambito del servizio sanitario e della pubblica istruzione ... (lett. e)". [L'art. 7 cit. della legge 205/2000, com'è noto, ha modificato l'art. 33, comma secondo, lett. e), del d.lgs. 31.3.98 n. 80]. Inoltre, nel chiedere la reiezione dell'eccezione avversaria, si era in sostanza anche affermato, implicitamente, che la violazione, dedotta col ricorso della ***, investiva norme di azione e non di relazione, essendo la pretesa della ricorrente il riflesso degli obblighi di imparzialità e di rispetto della laicità che devono sempre regolare l'azione amministrativa. Invero, nessuno penserebbe che vi è lesione della libertà di religione di un cittadino se è un altro soggetto privato - il quale naturalmente non è vincolato dagli obblighi di imparzialità e non confessionalità - ad ostentare pubblicamente simboli religiosi.
Codesto TAR, comunque, pronunciando sulla eccezione di difetto di giurisdizione, proposta dall'Avvocatura, ha così giustamente affermato nella sua sentenza-ordinanza n. 56/04: <
Solo per completezza deduciamo altresì che il Tribunale dell'Aquila, investito del reclamo contro il provvedimento d'urgenza del giudice monocratico che aveva ordinato la rimozione dei crocifissi dalla scuola elementare di Ofena, ha, con ordinanza collegiale del 29 novembre 2003, annullato l'ordinanza cautelare, dichiarando il difetto di giurisdizione dell'autorità giurisdizionale ordinaria. Ed ha affermato quella del giudice amministrativo, correttamente applicando il principio della giurisdizione esclusiva dei TAR nelle controversie "riguardanti le attività e le prestazioni .... rese nell'ambito del servizio .... della pubblica istruzione"; principio sancito, come più sopra ricordato, dall'art. 33, 2° co., lett. e), d.lgs. 80/1998, come modificato dall'art. 7 della legge 205/2000. Rilevato che la disposizione citata fa solo"salvi i rapporti individuali di utenza con soggetti privati e le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alle persone o alle cose", osserviamo che in merito il Tribunale dell'Aquila, con la sua citata ordinanza collegiale del 29 novembre 2003, nel dire - si ripete - che la controversia afferiva al servizio dell'istruzione pubblica, ha precisato che essa non poteva essere inquadrata come lite relativa ad un rapporto individuale di utenza, investendo la fonte del potere e le modalità generali organizzative del servizio. Secondo il Tribunale dell'Aquila la controversia era poi, per di più, esclusa dalla deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche sotto un diverso profilo, in quanto l'espressione "con soggetti privati" che compare nella disposizione succitata va interpretata - ha detto - come riferita al gestore "privato" e non al fruitore del pubblico servizio, con la conseguenza che anche se fosse stato ipotizzabile nel caso de quo un rapporto individuale tra utente e gestore, quest'ultimo, in quanto nel caso di specie scuola pubblica, non sarebbe stato un soggetto privato.
Circa la sentenza n. 435/02 di codesto TAR, richiamata dalla difesa dell'interveniente, osserviamo innanzitutto che la controversia con essa decisa riguardava questione molto diversa, che investiva chiaramente norme di relazione e non di azione. Nella citata sentenza c'è poi un chiaro richiamo alla "giurisdizione esclusiva" di cui alle riforme del biennio 1998 - 2000, non applicabile in quel particolare e diverso caso; ed essa dichiarava addirittura pure la inammissibilità del ricorso, per carenza di interesse personale.
Ricordiamo infine che codesto TAR con la sentenza n. 2478/99, già richiamata nella nostra memoria di replica del 3.11.03, decidendo una controversia analoga a quella de qua, ha implicitamente affermato la piena giurisdizione del giudice amministrativo.[Ricordiamo che in essa si diceva, -anche in diretta applicazione dell'art. 9 della legge 11 agosto 1984 n. 449, nonché delle disposizioni dettate dalle leggi 516/88, 517/88 e 101/89 -, che "la pratica della religione .. non può essere imposta a tutti gli studenti .. per il solo fatto che tale esigenza spirituale sia comune alla maggioranza degli altri studenti e/o dei loro genitori e/o della classe insegnante"; e che ... "detta pratica non è inerente .. alla funzione propria della scuola ed alle sue finalità istituzionali". Nella stessa si diceva pure di condividere la pronuncia del TAR Emilia Romagna n. 250/93, in cui, affermandosi per implicito la giurisdizione del giudice amministrativo, veniva osservato che le manifestazioni "di culto si compiono unicamente nei luoghi ad esse naturalmente destinate, che sono le chiese ed i templi"].
2. In merito all'intervento di Paolo *** e ***, nella qualità dichiarata.
L'intervento di Paolo ***, fatto anche quale genitore della figlia *** ***, e quello di ***, quale presidente dell'*** di ***, con atto notificato in data 2 marzo 2005, sono a nostro avviso infondati, ed il secondo è da dichiarare inammissibile per il seguente motivo. Invero, non agisce l'*** di ***, bensì il soggetto privato ***, il quale ha pensato di poterlo fare, essendo - egli dice - presidente della medesima Pertanto, l'intervento non può esser ammesso, perché la titolarità di una carica sociale non comporta l'intestazione di interessi collettivi o diffusi in capo alla persona fisica che riveste la carica stessa. L'intervento, inoltre, è secondo noi inammissibile pure per i motivi svolti più sopra, al punto 1.
Riservandoci di illustrare meglio, in sede di discussione del ricorso, i motivi della nostra opposizione, deduciamo ora quanto segue.
- La censura di "inammissibilità del ricorso per difetto di contraddittorio sotto il profilo della mancata notifica dello stesso ad almeno un controinteressato ex art. 21, legge 1034/71", riteniamo sia improponibile e comunque non meritevole di accoglimento.
Identica eccezione di improcedibilità del ricorso, proposta dall'Avvocatura nella sua memoria del 29.10.03, è stata rigettata da codesto TAR con l'ordinanza - sentenza n. 56/04, in cui si precisa che "nel giudizio amministrativo la posizione di controinteressato va riconosciuta - con il conseguente onere di notificazione del ricorso introduttivo - ai soggetti che si trovano in una posizione antitetica a quella del ricorrente, traendo utilità propria e diretta dal provvedimento impugnato, e sono facilmente individuabili in base a q u e s t o: in specie manca senz'altro questo secondo requisito". - I difensori degli intervenienti certamente sanno che sul punto c'è una giurisprudenza costante, che, conformemente alla lettera della legge, che prescrive che "il ricorso deve essere notificato .... ai controinteressato ai quali l'atto direttamente si riferisce"(art. 21, L. 1034/71), afferma che "nel processo amministrativo la qualità di controinteressato in senso tecnico deve essere riconosciuta a coloro che ...... siano nominativamente indicati nel provvedimento stesso o comunque siano agevolmente individuabili in base ad e s s o (cd. elemento formale)". Fra le tante, citiamo le seguenti pronunce: C. d. St. 3895/01, C. d. St. 763/03, C. d. St. 2991/03, TAR Lazio Latina n. 150/02. - L'affermazione avversaria, secondo cui l'eccezione di difetto del contraddittorio sarebbe ugualmente proponibile, nonostante la decisione di rigetto pronunciata in merito ad essa da codesto TAR, non tiene a nostro avviso fra l'altro presente che, trattandosi di questione pregiudiziale, andava necessariamente esaminata e decisa, come è stato fatto, preliminarmente alla decisione di sollevare questione di legittimità costituzionale. Così come avvenuto per l'altra questione pregiudiziale della giurisdizione. Per questo motivo, essendo questione "necessariamente" già decisa, non è nuovamente proponibile in questa fase del giudizio.
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3. Nel merito del ricorso.
3.1. Codesto TAR, con l'Ordinanza-Sentenza n. 56/04, ha giustamente affermato che "il crocifisso rappresenta la massima icona cristiana ... di univoco significato confessionale"; e che " le norme dell'ordinamento generale le quali prescrivono l'esposizione di tale simbolo .. nelle aule scolastiche, - (così come lo sarebbe di ogni altra disposizione che stabilisse la presenza di simboli di altre fedi) - non appaiono compatibili (c'è da dubitare che lo siano - scrive -) "con il principio supremo di laicità dello Stato ... emergente dagli artt. 2, 3, 8, 19, e 20 della Costituzione". Ed ha affermato altresì che "diversamente da quanto avviene per l'insegnamento della religione (cattolica), che liberamente gli studenti ed i loro genitori possono o meno accogliere, ...... la presenza del crocifisso viene obbligatoriamente imposta agli studenti ed ... agli stessi insegnanti"...... attribuendo (così) una posizione di privilegio alla religione cristiana rispetto alle altre confessioni".
Che il crocifisso rappresenti, come dice codesto TAR, la massima icona cristiana, lo ha sostenuto apertamente l'Avvocatura Generale dello Stato nella memoria 11.10.04 depositata, per il Presidente del Consiglio dei Ministri, nel giudizio avanti la Corte Costituzionale (all. 1), dicendo che "è noto che la Chiesa Cattolica indica il crocifisso quale proprio emblema o vessillo ... che ricorda la divinità del proprio fondatore e della propria costituzione".
Nella nostra memoria conclusiva del 29 ottobre 2003, cui rinviamo, abbiamo già accennato al fondamento delle norme regolamentari, di cui si discute (art. 118, R.D. 965/1924 ed art. 119 R.D. 1297/1928-Tabella C). Pertanto, qui ci limitiamo ad una sintetica riesposizione. La norma base, da cui partire, che costituiva l'architrave su cui poggiavano tutte le disposizioni relative all'introduzione sia di simboli propri della religione cattolica nelle scuole e negli uffici pubblici, che all'insegnamento obbligatorio delle medesima nelle scuole (tranne i limitati casi di giustificato esonero), è l'art. 1 dello Statuto Albertino, il quale disponeva che "la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato". Per cui - ha scritto l'Avvocatura nella succitata memoria dell'11.10.04 - "era spontaneo maturare il convincimento che l'esposizione del crocifisso fosse la naturale conseguenza di tale norma statutaria" (vs. all. 1 cit.). - Va al riguardo ricordato che per la legge Lanza del 1857 "l'insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell'istruzione"; formula, questa, che si ritroverà poi nel concordato fascista del 1929 ed ancora prima nel R.D. 1.10.1923 n. 2185, predisposto da Gentile, ministro della P. I., forte dei poteri conferitigli per la riforma del sistema scolastico con la legge delega 3.12.1922 n. 1601. Il crocifisso nelle scuole, già stabilito con circolare del 1857, con riferimento alla succitata legge Lanza, poi dall'art. 140 del R.D. 4336/1860, attuativo della legge Casati 3725/1859, e riconfermato da Gentile con circolare del 22.11.1922 , era pure - per usare l'efficace espressione dell'Avvocatura - "la naturale conseguenza" della succitata disposizione, venendo ad esser parte di quell'insegnamento diffuso della religione cattolica - f o n d a m e n t o dell'istruzione - che permeava di sé i programmi scolastici.
3.2. - Sulla precettività o meno delle norme regolamentari di cui all'art. 118, R.D. 965/1924 ed all'art. 119 R.D. 1297/1928-Tabella C.
La tesi sostenuta dall'Avvocatura Generale dello Stato nell'atto di intervento 21.6.04, fatto per il Presidente del Consiglio dei Ministri, nel giudizio avanti la Corte Costituzionale (all. 2), circa la non precettività delle norme regolamentari in materia - tesi che anche la Corte Costituzionale ha manifestato implicitamente di condividere - viene così argomentata. "E'un vano sforzo - dice - ... individuare l'obbligo di esposizione del crocifisso nell'art. 119 del regolamento n. 1297/1928 ... o nell'art. 118 del regolamento 965/1924. ...... In quei regolamenti l'obbligo non c'è. - Deduce che nell'art. 119 - tabella C - R.D. 1927/1928 "c'è una lunga teoria di oggetti ... tra i quali .. anche il crocifisso, senza però indicazione obbligatoria di sua esposizione": non è neppure indicato nel catalogo - precisa - fra gli "oggetti obbligatori" in dotazione della Direzione. Aggiunge che "l'art. 118 del regolamento 965/1924 ... parla solo di dotazione, e non di obbligo di perpetua esposizione, quando dice che <
3.3. Così impostato il problema, noi riteniamo di poterlo condividere. Facciamo anche nostre, pur costituendo, riteniamo, già parte di quanto abbiamo dedotto nei precedenti scritti difensivi, la giusta critica svolta dall'Avvocatura Generale nella sua memoria dell'11.10.04 (vs. all. 1 cit.) nei confronti del parere n. 63 del 27.4.98 fornito dal Consiglio di Stato in sede consultiva. Parere in cui, quest'ultimo - dice l'Avvocatura - in modo "del tutto inappagante, .... argomenta dal silenzio dei Patti Lateranensi in merito all'esposizione del crocifisso per sostenere l'insignificanza in materia delle modifiche del 1984 (accordo di revisione del concordato, reso esecutivo con legge 121/85), con la conseguente piena vigenza dei regolamenti del 1924 e del 1925: l'abrogazione di una norma, infatti, - dice correttamente l'Avvocatura - può essere tacita". E sempre nella stessa memoria (all. 1 cit.), dopo aver ripetutamente sottolineato che il principio sancito dall'art. 1 dello statuto Albertino: essere quella cattolica l'unica religione dello Stato, è stato abrogato dal punto 1 del Protocollo Addizionale all'accordo di Villa Madama del 1984, l'Avvocatura, ricordato di nuovo che le norme regolamentari in questione del 1924 e 1925, "trovarono all'epoca fondamento nell'art. 1 dello Statuto, ......... -, non può non dire, con onestà intellettuale, che "certo è che la data di nascita di quelle norme , promulgate in un ordinamento che aveva scelto la
3.4. Però, invece di trarre, come noi, la logica conclusione circa la tacita abrogazione di quelle norme regolamentari del 1924 e de 1925 - precettive o meno che siano in merito all'obbligo di esposizione del crocifisso -, l'Avvocatura Generale, nella medesima memoria dell'11.X.2004 (all. 1 cit.), cerca per esse un ancoraggio, - (a nostro parere impossibile, tenuto presente anche l'orientamento del giudice delle leggi sul principio supremo di laicità dello Stato Italiano) -, nell'art. 7 della Costituzione. Il quale, peraltro, nulla ovviamente dispone in materia. Consapevole dell'insostenibilità di questa ardita tesi, l'Avvocatura Generale, affermando che "i valori morali che la Chiesa cattolica esprime e che il crocifisso, simbolo della Chiesa, evoca sono ... coincidenti - ... nella dimensione umana - con il modo di sentire della nostra gente.... e con la stessa impostazione etica della Costituzione", si è spinta sino a dire che "è proprio il comune modo di sentire, costituito a sistema morale, ... fonte di produzione (sic!) di quei precetti costituzionali - (senza dire quali) - e spiegazione della loro convinta accettazione da parte della collettività". Siamo all'invocazione dello Stato etico ed alla giustificazione teorica di quei tentativi, oggi apertamente invocati da consistenti forze politiche e culturali, di tornare indietro ad una giustizia non più basata sul principio di legalità, cardine dello Stato di diritto, ma su labili riferimenti al "comune sentire", di matrice storica nazionalsocialista e comunque del tutto incompatibili con il nostro ordinamento democratico.
3. 5. Noi riteniamo che codesto TAR, nell'ipotesi in cui continui a ritenere precettive dell'obbligo di esposizione del crocifisso le norme regolamentari in questione del 1924 e 1925, debba convenire - per tutto quanto dedotto nei precedenti scritti difensivi ed in questa memoria - sulla loro tacita abrogazione dopo la legge 121/85 di ratifica del nuovo concordato, che ha cancellato la norma che ne costituiva l'architrave ed il fondamento, cioè l'art. 1 dello Statuto Albertino. Non c'è dubbio, invero, che, come è stato affermato, l'abrogazione esplicita di un principio giuridico (nel caso di specie la religione cattolica come religione dello Stato) comporta necessariamente e naturalmente l'abrogazione tacita delle disposizioni che vi fanno riferimento, in particolare se si tratta di normativa di rango secondario. - Occorre inoltre tener presente che le norme regolamentari in questione debbono in ogni caso ritenersi tacitamente abrogate, ex art. 15 delle preleggi, per incompatibilità con le disposizioni, più sopra citate, di cui agli artt. 9 della legge 11 agosto 1984 n. 449; 11 della 516/88; 8 della legge 517/88; e 11 della legge 101/89, nelle quali è statuito che "la Repubblica italiana, nel garantire la libertà di coscienza di tutti, ..... provvede a che non siano previste forme di insegnamento religioso diffuso nello svolgimento dei programmi di altre discipline. In ogni caso non possono essere richieste agli alunni pratiche religiose o atti di culto". - Richiamata di nuovo la corretta affermazione fatta da codesto TAR che "il crocifisso rappresenta la massima icona cristiana, presente in ogni luogo di culto e più di ogni altra venerata, .. e di univoco significato confessionale"; e che "la presenza del crocifisso viene obbligatoriamente imposta agli studenti ed ... agli stessi insegnanti"...... attribuendo una posizione di privilegio alla religione cristiana rispetto alle altre confessioni"; - non può non riconoscersi che le norme regolamentari, di cui trattasi, del 1924 e del 1925, debbono in ogni caso ritenersi tacitamente abrogate per radicale incompatibilità con le disposizioni normative sopra citate. Invero, non viene garantita la libertà di coscienza di tutti, imponendo la presenza di un simbolo religioso, che, come dice giustamente codesto TAR, "attribu(isce) una posizione di privilegio alla religione cristiana rispetto alle altre confessioni". E la cui presenza viene quindi a costituire un culto permanente, vietato espressamente non solo dai principi costituzionali ma anche dalle leggi sopra citate, che recepiscono le intese fra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Basti ricordare, circa il significato dell'icona principale della chiesa cattolica, che la circolare 26 maggio 1926 del ministro della P.I., la quale disponeva sulla presenza del crocifisso nelle scuole, diceva, coerentemente col principio affermato dall'art. 1 dello Statuto, che "il simbolo della nostra religione, ... sacro alla fede, ... ammonisca ed ispiri la gioventù studiosa".
3.6. Ove il TAR non reputi sia intervenuta abrogazione tacita delle disposizioni in questione - ritenute precettive -, riteniamo che, data la loro palese illegittimità per contrasto col supremo principio di laicità dello Stato, come affermata nell'ordinanza-sentenza n. 56/04, debba procedere alla loro disapplicazione in parte qua, mettendo quindi in atto lo strumento all'uopo predisposto dall'ordinamento.
3.7. Nell'ipotesi, invece, in cui codesto TAR, melius recogitata re, ritenga che le norme regolamentari in questione del 1924 e 1925 non pongano un obbligo di esposizione del crocifisso, il problema, come diceva l'Avvocatura Generale (vs. all. 1 cit.), "è di verificare se sia consentita dalle norme costituzionali la scelta di esporre quel simbolo"; e quindi la controversia reputiamo debba essere decisa, non certo, facendo riferimento al "comune sentire", ma applicando proprio i principi "emergenti dagli artt. 2, 3, 8, 19, e 20 della Costituzione". Facendo quindi riferimento a quegli stessi parametri costituzionali in base ai quali la Corte Costituzionale ha reputato illegittima la tutela più intensa accordata dalla legge penale ai simboli (e alle persone) venerate dalla religione cattolica, annullando pertanto l'art. 724 c.p. nella parte in cui punisce la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica, con conseguente violazione del principio di uguaglianza (Corte cost., sent. 440/1995, in Giur. cost. 1995, 3482).
- Riteniamo infine - torniamo a ripetere - che debba riconoscersi la violazione del principio di imparzialità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), per la preferenza accordata al simbolo di una religione particolare, come pure sottolineato nell'ordinanza-sentenza n. 56/04 di codesto TAR ; e sottolineiamo che il provvedimento impugnato è incompatibile con gli art. 1 e 2 del d.lgs. 297/1994, che individuano la finalità dell'insegnamento nella promozione - attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, come già detto in ricorso -, della piena formazione della personalità degli alunni, nel rispetto della loro coscienza morale e civile; e contrastano altresì con il principio obiettivo di libertà dell'insegnamento (art. 33 Cost.), che ne importa la neutralità e l'aconfessionalità. Lo svolgimento delle lezioni sotto il segno di una determinata confessione, invece, può indurre a pensare, come dedotto più sopra, che l'insegnamento sia soggetto all'influenza di quella religione. Con considerazioni analoghe il Tribunale federale svizzero, I° corte di diritto pubblico, sent. 26 settembre 1990 (in Quad. dir. pol. eccl. 1990/1, 352 ss.), ha reputato incompatibile con il carattere non confessionale dell'insegnamento, prescritto dall'art. 27, comma 3, della costituzione federale, (e correlato alla garanzia della libertà di religione di cui all'art. 49 della carta costituzionale svizzera), di far appendere il crocifisso nelle aule scolastiche, adottata da un municipio. Pur dando atto che il provvedimento dell'autorità poteva essere inteso come espressione dell'attaccamento alla tradizione e ai fondamenti cristiani della civiltà e cultura occidentale, il Tribunale federale ha osservato come lo Stato garante della neutralità confessionale della scuola pubblica non può avvalersi della facoltà di manifestare in ogni circostanza, nell'ambito dell'insegnamento, il proprio attaccamento ad una confessione e deve evitare di identificarsi con una confessione maggioritaria o minoritaria, per non pregiudicare le convinzioni dei cittadini con religioni diverse.
***-Venezia 5 marzo 2005
avv. Luigi Ficarra