l diritto all'uso della lingua madre nel Sudtirolo è stato - come noto - di difficile affermazione: una recente pronuncia della Corte di Cassazione (dd. 13 ottobre 2004) consente di ritornare a riflettere sul significato profondo di tale diritto umano, che non può essere strumentalizzato.
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DIRITTO ALLA LINGUA MADRE IN SUDTIROLO:
UN DIRITTO ANCORA CONTROVERSO
l diritto all'uso della lingua madre, diritto fondamentale tutelato da Convenzioni internazionali, dalla Costituzione italiana nonché da precise norme procedurali, nel Sudtirolo è stato - come noto - di difficile affermazione.
Nonostante il tentativo di naturalizzazione del Sudtirolo iniziato a partire dagli anni venti, e i suoi duri divieti e precetti ed i mirati provvedimenti contro i sudtirolesi, il regime fascista non era riuscito ad italianizzare il Sudtirolo. Senza voler riprendere in questa sede la travagliata genesi, che ha visto nei fatti degli anni 60-70 il momento più cruento e che ha dato origine ad una controversia tra Italia ed Austria in sede ONU (su richiesta dell'allora Ministro degli Esteri austriaco Bruno Kreisky del 23 giugno 1960 e conclusasi solo nel 1992), si ricorda che fin dall'Accordo di Parigi (cd. Accodo De Gasperi Gruber) sono state garantiti alla popolazione sudtirolese disposizioni speciali, destinate a salvaguardare la sua identità ed il suo sviluppo culturale ed economico.
Il nuovo Statuto di autonomia del 1972, concesso dallo Stato democratico italiano dopo lunghe battaglie, costituisce o dovrebbe costituire oggi un'efficace garanzia della sopravvivenza come gruppi etnici delle minoranze linguistiche tedesca e ladina nella loro identità linguistica e culturale.
Ai sensi dell'Accordo di Parigi, il citato Statuto di autonomia del 1972 costituisce infatti lo strumento teso a garantire lo sviluppo linguistico-culturale dei gruppi linguistici tedesco e ladino all'interno dello Stato italiano: peraltro, solo a maggio del 1989 è stato pubblicato il D.P.R. n. 574/1988, attuativo della speciale protezione costituzionale delle minoranze linguistiche prevista, in generale, nell'art. 6 della Costituzione e, in particolare, nell'art. 100 del d.P.R. n. 670 del 1972, sulla parificazione della lingua tedesca a quella italiana e sull'uso della lingua tedesca nella pubblica amministrazione del tribunale, della polizia, ecc.
Tale atto legislativo - in particolare sub artt. 1, cII, 12, 14 ss. - cerca di regolamentare il momento più delicato del contratto sociale fra cittadino e Stato, dato che il cittadino si è spogliato della propria vis punitiva per delegarla all'apparato statale, rappresentato in prima istanza appunto dagli operatori delle forze dell'ordine, che sono (o dovrebbero essere) al servizio del cittadino, e non viceversa.
Molti anni di impegno da parte di forze politiche, società civile e pubblica amministrazione (ivi comprese le forze di polizia di cultura democratica) davano la speranza che - ognuno certamente nel rispetto per il lavoro altrui, e nella consapevolezza della finalità dell'importante funzione delle forze dell'ordine - i diritti fondamentali, ivi compreso quello dell'uso della propria lingua, fossero acquisiti una volta per tutte.
Si ricorda, infatti, che già la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce all'art. 6, terzo comma, lettera a), che
"ogni accusato ha diritto (...) a essere informato, nel più breve spazio di tempo, nella lingua che egli comprende e in maniera dettagliata, della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta".
Una disposizione del tutto identica è, altresì, contenuta nell'art. 14, terzo comma, lettera a), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, patto che è stato firmato il 19 dicembre 1966 a New York ed è stato reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881 (ma vedi anche l'art. 3, terzo comma, lettera a), e l'art. 14, terzo comma, lettera f), del Patto internazionale dei diritti civili e politici, di cui l'art. 143, primo comma, c.p.p. costituisce una riproduzione pressoché letterale).
Le norme internazionali appena ricordate sono state introdotte nell'ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione (v. sent. Corte Cost. n. 188 del 1980, sent. Corte Cost. n. 153 del 1987 e sent. Corte Cost. n. 323 del 1989) e sono tuttora vigenti. Di più: grazie al collegamento delle norme ora richiamate con l'art. 143 c.p.p., che ad esse assicura la garanzia dell'effettività e dell'applicabilità in concreto, il diritto dell'imputato ad essere immediatamente e dettagliatamente informato nella lingua da lui conosciuta della natura e dei motivi dell'imputazione contestatagli dev'esser considerato un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile (v. analogamente sent. Corte Costituzionale n. 62 del 1992). E, poiché si tratta di un diritto la cui garanzia, ancorché esplicitata da atti aventi il rango della legge ordinaria, esprime un contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di ogni uomo (cittadino o straniero), del diritto inviolabile alla difesa ( art. 24, secondo comma, della Costituzione), ne consegue che, in ragione della natura di quest'ultimo quale principio fondamentale, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, il giudice è sottoposto al vincolo interpretativo di conferire alle norme, che contengono le garanzie dei diritti di difesa in ordine alla esatta comprensione dell'accusa, un significato espansivo, diretto a render concreto ed effettivo, nei limiti del possibile, il sopra indicato diritto dell'imputato (cfr., praticamente testualmente, Corte Costituzionale sentenza n. 10 anno 1993).
Di recente, grazie ad una controversa pronuncia da parte del Tribunale di Bolzano - sezione Riesame - si è nuovamente potuto ragionare sul vero significato di tale diritto.
L'ordinanza del Tribunale del riesame (dd. 21 aprile 2004) che aveva dichiarato l'inammissibilità del ricorso ex art. 309 c.p.p. proposto con una richiesta formulata in italiano in un processo da celebrarsi in lingua tedesca si poneva infatti in consapevole contrasto con una assodata giurisprudenza dei massimi organi giurisdizionali, che avevano stabilito che né il tenore del DPR 574/88 né la ratio dello potessero giustificare una simile pronuncia di inammissibilità.
Di seguito, dal testo del ricorso per Cassazione tempestivamente proposto:
Il D.P.R. 574/1988 è stato emanato per dare più ampia attuazione al principio contenuto nell'art.100 comma 1 dello Statuto speciale per il Trentino - Alto Adige (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) secondo cui, nell'ambito della tutela che l'art. 6 della Costituzione vuole sia assicurata alle minoranze linguistiche, i "cittadini di lingua tedesca della provincia di Bolzano hanno facoltà di usare la loro lingua nei rapporti con gli uffici giudiziari e con gli organi e uffici della pubblica amministrazione situati nella provincia o aventi competenza regionale quanto riguarda" (facoltà!; ev. aggiunta).
Per quanto riguarda il processo penale, il concreto esercizio di tale facoltà e le sue conseguenze sono disciplinati da una serie di disposizioni del citato D.P.R., che si rivolgono - per espressa dizione normativa di cui all'articolo 13 contenuto nel Capo IV rubricato significativamente "Rapporti con gli uffici giudiziari e con gli organi giurisdizionali" - agli uffici e gli organi di cui all'art. 1 del decreto medesimo e, almeno per le nullità ivi espressamente previste - giova anticiparlo - solo a quelli (!).
Illegittimamente dunque la ordinanza impugnata
estende analogicamente (ed in malam partem) le cause di nullità previste nel citato D.P.R. in altrettanti motivi di inammissibilità, in assenza di previsione legislativa espressa
- estendendo altresì l'ambito soggettivo di applicazione della normativa anche ai difensori di tali "nullità/motivi di inammissibilità",
- contrastando altresì l'interpretazione di cui all'ordinanza impugnata con la ratio della normativa, posta a tutela dell'indagato/imputato.
***
Già la fondamentale sentenza della Corte di Cassazione, 5 maggio 1997, zezione I, n.5887 (Gruber; ev. aggiunta) chiariva che le norme di cui al D.P.R. 574/88 cit. prendono in considerazione, tra gli atti formulati in lingua diversa da quella adottata, soltanto quelli "processuali", come in senso stretto inequivocabilmente risulta dalla lettera degli artt. 14 e 15 e dal tipo di sanzione in ogni caso stabilita, la nullità, che è una forma di invalidità tipica appunto degli atti formati dagli organi del procedimento, mentre per gli atti delle parti impugnazioni comprese, è prevista una sanzione diversa, la inammissibilità.
Orbene, nessuna delle menzionate disposizioni del DPR 574/1988 commina quest'ultimo tipo di sanzione per il quale pure vale, come per le nullità, il principio di tassatività (cfr. al riguardo la sentenza della II Sezione di questa Corte 17/10/94, P.M., in proc. Miceli).
Neppure la novella del 2001, che introduce l'articolo 18bis nel D.P.R. cit., che prevede "la nullità assoluta per l'inosservanza delle disposizioni" di cui agli articoli 14 - 15, 16, 17, 17bis, 17ter, 17quater, 18 e 18ter ha introdotto una qualsiasi inammissibilità per gli atti defensionali, dovendo a fortiori concludere che la nullità di all'articolo 18bis, essendo forma di invalidità tipica appunto degli atti formati dagli organi del procedimento, si applichi solo a questi (i quali sono peraltro i soli destinatari della normativa speciale; cfr. art. 13 D.P.R. cit. ed infra).
Esclusa la inammissibilità "oggettiva" dell'impugnazione ex 309 c.p.p. secondo la normativa di cui al D.P.R. 574/88 perché non prevista, questa non può essere desunta né dalla disciplina contenuta sub 309 ss. c.p.p. (che prevede una causa di inammissibilità del ricorso solo per il caso sub 311/2 c.p.p.), né tantomeno dalla disciplina generale delle impugnazioni.
Infatti, il mancato uso, nella redazione della impugnazione di cui si tratta, della lingua tedesca - adottata nel procedimento de qua in via eccezionale rispetto a quanto previsto dall'art. 109 comma 1 C.P.P., per il preciso scopo di garanzia del diritto alla lingua madre - non comporta neppure l'inosservanza dei requisiti di forma richiesti ai sensi degli artt. 581 e 591 comma 1 lett. c) C.P.P., poiché - a parte i rilievi sulla concorrenza e non alternatività della lingua che può essere usata dall'appartenente ad una minoranza linguistica di cui alla pronuncia della Corte Costituzionale di cui infra - l'atto è stato formato in lingua italiana, della quale la Corte adita deve per legge avere conoscenza e che è l'unica imposta come ufficiale dal citato art. 109 C.P.P. in relazione alle esigenze di funzionalità del processo, tra cui quella che richiede la comprensibilità del gravame dal giudice al quale è diretto.
Nel medesimo filone interpretativo si inseriscono altresì le pronunce successive della Cassazione Penale .
Per la possibilità del difensore di fiducia di proporre mezzo di gravame anche in lingua diversa da quella scelta dall'indagato/imputato pare concludere anche la ratio della normativa.
Infatti, "il carattere assoluto della nullità che inficia gli atti processuali formulati in lingua diversa da quella scelta dall'imputato appartenente alla minoranza linguistica trova d'altro canto la sua ragion d'essere nella protezione di suoi fondamentali diritti tra cui quello di difesa (cfr. la sentenza della VI Sezione 16/6/94, Mahlknecht), e sarebbe davvero incoerente fare discendere conseguenze per l'imputato stesso pregiudizievoli - come la caducazione degli effetti di una impugnazione proposta nel suo interesse da difensore legato da mandato fiduciario, che la legge non prevede neppure gli debba essere notificata - da una normativa preordinata a garantire questa sua particolare condizione. (...)" (Corte di Cassazione, 5 maggio 1997cit.).
Identicamente, la Corte Costituzionale espressamente statuisce che "il d.P.R. n. 574 del 1988, nel disciplinare l'uso della lingua nel processo penale da parte dei cittadini appartenenti al gruppo linguistico tedesco, ha posto al centro del sistema la tutela dell'imputato" (sentenza 16/1995; ev. aggiunta).
La stessa Corte Costituzionale (sentenza 271/1994; ev. aggiunta) aveva peraltro già statuito che "nei confronti dei cittadini appartenenti al gruppo linguistico tedesco della Provincia di Bolzano il diritto relativo alla scelta della lingua del processo di cui all'art. 17 del d.P.R. n. 574 non si presenta, quindi, alternativo, bensì concorrente con il diritto attribuito in generale a tutti i cittadini appartenenti a minoranze linguistiche riconosciute ad essere interrogati o esaminati, a propria richiesta, nella lingua materna: collegandosi il primo diritto all'art. 6 della Costituzione, in relazione alle esigenze di tutela riconosciute a favore del patrimonio culturale di una particolare minoranza, ed il secondo all'art. 24 della Costituzione, in relazione all'esigenza di far salvo, attraverso la difesa in giudizio, un diritto inviolabile della persona umana.
Questa Corte, ha già avuto modo di rilevare tale diversità dei due piani di garanzia, quando ha sottolineato l'"interferenza", ma non la "coincidenza o sovrapposizione" tra la tutela spettante alla minoranza linguistica riconosciuta, che si realizza non costringendo gli appartenenti a tale minoranza ad usare nei rapporti con le autorità pubbliche una lingua diversa da quella materna, e la tutela connessa alla garanzia costituzionale del diritto di difesa riferita al singolo e suscettibile di realizzarsi, in relazione all'esigenza di una corretta utilizzazione degli strumenti processuali e di una adeguata comprensione degli stessi, attraverso l'uso da parte dell'inquisito stesso della lingua materna (v. sent. 62 del 1992). L'interferenza tra le due garanzie consente, in questo caso, all'imputato appartenente alla minoranza linguistica tedesca di scegliere, ai sensi della disciplina speciale posta in sede di attuazione statutaria, la lingua del processo anche in funzione delle esigenze della difesa tecnica, senza per questo dover rinunciare all'esercizio del diritto di autodifesa, ai sensi dell'art. 109, secondo comma, cod. proc. pen., nella propria lingua materna.
Infatti, si consideri la assoluta violazione del diritto di difesa con conseguente illegittimità costituzionale (anche in riferimento alle finalità enunciate dall'articolo 100 Statuto d'Autonomia cit.) qualora la normativa citata
- posta a tutela dell'indagato/imputato appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta
- venisse interpretata comprimendo il suo diritto alla difesa nel senso di obbligare lo stesso a scegliersi un difensore della medesima madre lingua, o a rinunciare alla garanzia linguistica per scegliersi liberamente il difensore!!
Oltre a ciò, la stessa sfera "soggettiva" di applicabilità delle norme del D.P.R. (art. 13 citato) esclude la correttezza delle conclusioni del Giudice che ha emesso il provvedimento impugnato: ad esempio, la sentenza n. 9737 della Cassazione Penale, sezione I, dd. 18 giugno 1998, dà atto che il sistema legislativo delineato dal D.P.R. 574/88, all'infuori della facoltà del difensore di fiducia di esprimersi oralmente nella lingua preferita, "non menziona affatto i difensori e regola esclusivamente i rapporti dei cittadini con gli organi giudiziari e la forma linguistica degli atti da questi ultimi posti in essere, prevedendo in caso di discordanza con la dichiarata volontà dell'incolpato la sanzione tipica degli atti processuali in senso stretto, e cioè la nullità, e non il diverso vizio caratteristico degli atti di parte, cioè l'inammissibilità. Quanto alla particolare disciplina degli interventi orali, essa, implicitamente prescrivendo, in linea di massima e salvo la limitata eccezione di cui si è detto, l'uso della lingua del processo ai difensori di tutte le parti, è posta a garanzia del contraddittorio e della difesa dell'imputato e tende a rendergli comprensibili gli sviluppi del dibattimento e consentirgli l'esercizio della facoltà dì personale intervento ai sensi degli artt. 494 e 523, co. 5, C.P.P.. Tale "ratio" non può evidentemente essere estesa agli atti difensivi scritti, e in particolare alle impugnazioni, tanto meno se redatti nell'interesse dello stesso imputato; né può sostenersi che l'uso della lingua "alternativa" sarebbe connotato da "antigiuridicità" perché contrastante con le norme imperative poste a presidio della struttura plurilingue della provincia autonoma. Va in proposito rilevato che l'inammissibilità di impugnazioni redatte in lingua straniera, ricavata in via interpretativa (cfr. Cass., Sez. VI, 20.6-18.10.1994, P.G. in proc.
In data 13 ottobre 2004 la Corte di Cassazione (I sez., n. 18387/2004 registro generale) accoglieva il ricorso, annullando l'impugnata ordinanza e rinviando gli atti per nuovo esame al Tribunale di Bolzano.
Avv. Nicola Canestrini