Onorare i caduti, non celebrare la morte
di Domenico Gallo
La morte dei 19 italiani impegnati nella missione "Antica Babilonia" è un evento così crudele ed assurdo che la coscienza collettiva non lo può accettare, non può accettare che tante vite siano state spezzate, cancellate per sempre sull'altare di una politica impazzita ed irresponsabile. Di qui l'esigenza di elaborare il lutto, secondo il vecchio schema della retorica patriottica, trasformando la morte in "sacrificio", in offerta generosa delle vita per la salute della collettività. Per questo è stato inventato il "milite ignoto" e sono stati costruiti i "sacrari" ai caduti, e non è un caso che oggi quei templi vengano riaperti. Nella prima metà del secolo scorso le nostre piazze e le nostre chiese, i nostri municipi si sono ammantati di lapidi che "celebravano" il sacrificio dei nostri combattenti, caduti per la Patria. Nello stesso tempo quelle lapidi, chiudevano la bocca ad ogni dissenso che potesse mettere in discussione i meccanismi della politica e del potere che quelle morti avevano prodotto. Morire per la Patria era un evento sacro e generoso: solo con questa trasfigurazione ideologica della morte si poteva rendere accettabile alla coscienza collettiva il peso insostenibile del dolore.
Se nella seconda metà del secolo scorso quelle lapidi non sono state più erette, ed il culto della morte non è stato più celebrato, ciò è avvenuto perché la politica lo ha impedito. Proprio questo vuol dire il ripudio della guerra: che la morte è stata tolta dagli utensili della politica, che deve perseguire i propri legittimi obiettivi con mezzi diversi dalla violenza bellica.
Nel momento in cui la politica, con irresponsabile leggerezza, rilegittima la guerra, non dobbiamo stupirci se, in fondo a questa strada, si incontra la morte. Piuttosto c'è da restare sbalorditi per la terribile fatuità di quegli uomini politici, come il Ministro Martino, che, a febbraio hanno dichiarato, con orgoglio, aperte le porte del Tempio di Giano, ed oggi si mostrano sconvolti per la deriva tragica delle loro azioni. Oppure per l'insensatezza di coloro che sono saliti, a cuor leggero, sul carro della "guerra" al terrorismo (che ha trasformato in conflitto armato la doverosa azione di contrasto alla violenza politica) e adesso reagiscono alle conseguenze della "guerra", lanciando proclami farneticanti.
Di fronte a questa tragedia, il rispetto per i caduti e la partecipazione al cordoglio della famiglie, non deve comportare rassegnazione a riti consolatori che pretendono di sterilizzare (politicamente) il dolore, annegandolo nella retorica del sacrificio per la Patria o per la pace nel mondo.
Naturalmente nessuno può contestare l'abnegazione e l'impegno per la pace dei caduti e dell'intero contingente italiano, che non si è recato in Irak per mettere quel paese a ferro e a fuoco, come hanno fatto le truppe americane, ma per svolgere una missione di ricostruzione della pace (peacebuilding).
Tuttavia quella missione, fin dal suo concepimento iniziale, appariva impossibile, perché non si può ricostruire la pace (rimettere in funzione le strutture civili, creare una cornice di sicurezza per tutti, etc.) operando all'ombra della Potenza occupante, sotto il suo comando ed inserendosi nel contesto dei fini perseguiti dall'Occupante. Per quanto possa sembrare strano, non tutto il popolo iracheno ha considerato la conquista e l'occupazione militare americana come una "liberazione". Anzi la conquista territoriale non ha posto fine alla guerra. Non è stata mai siglata una resa, ed il conflitto armato non è cessato, trasformandosi da guerra guerreggiata in guerriglia strisciante.
Inserire in questa situazione un contingente militare con funzioni di peacebuilding, è semplicemente un assurdo, perché non si può ricostruire la pace, se prima non finisce la guerra, ed i fatti dimostrano che la guerra non può finire se prima non si ritirano le forze di occupazione.
I tragici eventi del 12 novembre, hanno lacerato le finzioni della politica, dimostrando quanto sia stata avventata ed irresponsabile la decisione di inviare un contingente italiano in Irak con funzioni di peacebuilding. Dopo il 12 novembre la missione italiana non è più concepibile come missione di peacebuilding. Il contingente italiano dovrà prendere straordinarie misure di sicurezza che lo porteranno ad isolarsi dalla popolazione, facendo così venir meno la possibilità di lavorare per la ricostruzione della strutture civili, né potrà rinunziare a effettuare azioni di contrasto al "terrorismo", che comporteranno rastrellamenti, scontri armati ed azioni dolorose per la popolazione. Così una missione inizialmente concepita come ricostruzione della pace, si trasformerà inevitabilmente in una missione di controguerriglia. Se noi vogliamo onorare i nostri caduti, invece di celebrare il rito necrofilo della morte per la Patria, dobbiamo impedire che altri giovani, altre vite siano spezzate, sull'altare di una politica irresponsabile ed impazzita che costruisce morte. Per costruire la pace non c'è bisogno di sacrifici umani, ma di azioni e politiche responsabili e coerenti con il fine.
Domenico Gallo